L'OTTOCENTO DIETRO L'ANGOLO - ROMANZO
Copertina Romanzo









FORTEDATO

A questo punto del racconto, debbo invitarvi ad una indispensabile riflessione che spiega i fatti che leggerete. Negli anni di cui parliamo le passioni amorose si intrecciavano spesso con le passioni politiche. Del resto l'odio e l'amore, sentimenti che sono alla base dei rapporti tra due individui, sono anche all'origine dei conflitti tra nazioni. E il tradimento, cioè il venir meno ad un giuramento, riguarda come tutti sanno sia l'amore coniugale che l'amor di patria.
La vicenda che segue è un compendio significativo di queste passioni.
Nel 1811 morì misteriosamente a Sammarco un soldato del terzo Reggimento di linea napoletano nativo di Paterno della provincia di Montefosco. Chiunque di voi può verificarlo dal registro degli atti di morte conservato negli archivi del comune.
Il suo cognome era piuttosto strano: Fortedato. Vi pare possibile che potesse esistere un cognome simile?
E inoltre, perché si trovava a San Marco? Ve lo aveva portato il sindaco di Lattarico al quale a sua volta lo aveva lasciato il tenente della compagnia perché, dopo aver disertato, si era ammalato!
Suvvia, non penseremo davvero che negli anni terribili di cui stiamo parlando il sindaco di Lattarico si sia dato la briga di accompagnare all'ospedale dei poveri di San Marco un soldato traditore affetto da chissà quale malattia, magari contagiosa! Andatevi a leggere negli Atti della Gran Corte Criminale che razza di delinquenti erano coloro che disertavano e di quali delitti erano capaci dopo essersi data alla macchia!
Dalle carte non sappiamo come fosse morto, è scritto solo che aveva diciotto anni e chi erano i due dichiaranti del decesso. Uno dei due si chiamava Antonio ed era "tavernaro" alla piazza di sopra dove abitavano famiglie importanti come De Chiara, Campolongo e Talarico, e altre di rango minore, tuttavia benestanti, come gli Ajello e i Parlati, mercanti di seta girella, venuti da Positano.
Che cosa era accaduto.
In una di queste case entrò, senza essere notato, un giovane alto e bruno, che indossava una divisa militare molto impolverata. Legò la cavalcatura ad uno degli anelli del cortile e salì lentamente le scale. Non è difficile immaginare che abbia fatto esattamente queste cose, che possiamo dare per certe.
Una volta giunto al piano superiore fu fatto entrare. Estrasse un foglio ripiegato da sotto la giubba e lo posò su un piccolo vassoio d'argento che il domestico sorreggeva, pronunciando solo queste parole: "Guardia di Maestà Ferdinando".
Poi, come se tutto fosse nell'ordine naturale delle cose, bussò alla porta sulla sua destra e, senza attendere alcun permesso, entrò nella stanza.
"Chiudi" fu l'unica voce che il domestico sentì.
Si trovò in un vano ampio, dalle pareti ricoperte di quadri con burberi volti maschili, immagini di santi e sulla parete centrale una litografia con il ritratto del defunto Carlo III di Borbone. Sotto di essa, era collocato un piccolo divano su cui era seduta una figura femminile, non più giovane ma neppure anziana.
Indossava un elegante abito di colore nero, sbottonato nella parte superiore, in modo da lasciare scorgere il corpo nudo e bianco fino all'attaccatura del seno. Alcune ciocche di capelli le coprivano appena un occhio semichiuso privo della pupilla. Il volto era abbronzato come quello delle contadine e sotto l'abito troppo grande per il suo corpo minuto spuntavano dei piedi scalzi, scuri e callosi, tipici delle persone abituate a camminare senza scarpe.
Tutto si svolse come in un rituale consolidato.
Il giovane si fermò al centro della stanza e salutò militarmente battendo i tacchi tra loro. La donna lo raggiunse, si inginocchiò dinanzi a lui, quindi senza dire alcuna parola gli abbassò la grande patta che gli copriva le "vergogne". Iniziò ad appoggiare ora una ora l'altra guancia su di esse, e poi a strofinarvi il viso, emettendo flebili e impercettibili lamenti.
"Più forte, dai, ora ... " disse una voce maschile da una porta socchiusa posta sul lato sinistro della stanza, come se stesse dirigendo la tresca amorosa. La donna portò una mano sulla gonna e iniziò a sollevarla lentamente.
"Più piano, adesso ..." bisbigliò la voce di prima.
E la donna si mosse molto più lentamente, girando lo sguardo verso la porta, da cui proveniva un respiro ansimante, quasi ad attendere altre istruzioni.
Il soldato era lì, fermo, impassibile, a cercare nei volti burberi dei quadri un aiuto che gli impedisse di dare libero sfogo agli istinti naturali. Cercò di pensare alla guerra, alle postazioni che avrebbe dovuto superare, immaginò persino di essere ucciso e di gridare immolandosi per la causa "Viva Gioacchino". Fece scorrere in sequenza le immagini dei pericoli che aveva attraversato per portare i messaggi a "padri e fratelli maggiori". Tutto inutile.
La donna, su invito della occulta regia, aveva cominciato a nutrirsi di lui e a toccarsi con un movimento che cresceva di intensità, fino a diventare sempre più frenetico. Quasi violento.
Il soldato fece un ultimo tentativo per impedire di essere coinvolto in quell'azione che era costretto a subire: pensò di trovarsi tra le nevi del Serratore, dove una volta si era nascosto, e di essere senza stivali, né brache, assiderato.
Commise uno sbaglio, perché il suo pensiero frigido lo portò immediatamente ad apprezzare il calore che si trasmetteva circolarmente dal centro verso le altre parti del corpo. La mente cominciò per prima a rinunciare all'idea del freddo e della solitudine, lo sguardo corrusco si illanguidì sfocando i contorni del ritratto di Carlo III di Borbone in un'immagine sorridente che lo invitava, licenziosamente, ad abbandonarsi con piacere allo stato di grazia che anticipa l'esplosione di una forza incontenibile. Proprio quando aveva rinunciato ad ogni resistenza e il corpo diventava deliquescente, sentì i denti della donna serrarsi d'un colpo sull'estrema appendice, interrompendo con violenza la fuoriuscita dell'umore così a lungo represso.
Inveì con rabbia contro la sventurata e incolpevole fantesca, colpendola violentemente sulla testa con la mano chiusa a pugno e provocandosi un ulteriore, lancinante, dolore.
La donna cadde riversa a terra.
Improvvisamente la porta socchiusa si spalancò e nella stanza entrò imprecando un uomo anziano, semi svestito, che reggeva con una mano le brache abbassate a mezza coscia e agitava l'altra contro il soldato.
"Che cosa hai fatto, disgraziato!"
Disse altre cose all'indirizzo della statua sanguinante che lo sovrastava di oltre due palmi. Poi si piegò su colei che aveva diretto, scostandole la mano dall'inguine e ricoprendole le gambe. Dalla bocca aperta non usciva più alcun alito, ma solo un sottile, impercettibile filo di sangue.
Il paraninfo, impietrito, con la patta ancora aperta, osservava ciò che avveniva sotto i suoi occhi senza profferire parola. Non era la prima volta, ma nelle precedenti occasioni aveva dovuto assistere, impotente, all'amplesso carnale che si consumava ai suoi piedi con sospiri e lamenti tra i due non più giovani amanti: don M. e "donna" Arcangela, vedova con un figlio, disposta a tutto pur di vederlo crescere come un galantuomo.
Fu un accorrere silenzioso di domestici e domestiche. La donna fu ricomposta, il vestito abbassato fino alle caviglie, la bocca ripulita. Don M. indossò le brache, la giacca da camera e si diresse verso la stanza della moglie.
La trovò, come al solito, mentre stava recitando le sue preghiere.
Le disse che una serva, Arcangela, era morta.
Donna Cice posò il rosario sul comodino, si fece il segno della croce e ringraziò San Sebastiano a cui era tanto devota. Nessuno pianse.
Antonio, il figlio della morta, fu vegliato per quella notte da una domestica. Il giorno successivo fu consegnato ad una coppia senza figli, assieme al cavallo del soldato.
Era la notte del tre dicembre milleottocentodieci. Un lunedì.
Il giovane fu portato nella cantina e don M. la mattina seguente gli raccomandò di non far parola di quanto era accaduto. Gli mise in mano cinque ducati.
Se li riprese dalla tasca dopo un mese, quando lo sventurato cominciò ad avvertire dolori lancinanti allo stomaco e a vomitare bile. Fu portato, prima che morisse, nell'ospedale dei poveri, alla Porta Vecchia, distante poche decine di metri dalla cantina.
Chi fosse veramente il soldato disertore dallo strano cognome nessuno lo seppe mai, ad eccezione di coloro che avevano provveduto a farlo tacere per sempre.
Noi sappiamo solo che si chiamava Fortedato, che era nato nella provincia di Montefosco e che morì il 26 gennaio dell'anno milleottocentoundici.
Come al solito debbo darvi conto della veridicità delle mie affermazioni, perché si sa che le falsità hanno accesso immediato nella gran parte delle persone, mentre i fatti realmente accaduti destano sempre dubbi.
Tra coloro che erano a conoscenza della perversione, che oggi va sotto il nome di voyeurismo, c'era anche il tavernaro che dichiarò la morte del soldato. La sua bettola era al piano terreno di un palazzetto, che oggi, rimesso a nuovo, fa bella mostra di sé nella piazza cosiddetta di sopra.
Nel locale, che fu per un certo periodo un garage, io stesso ricordo la presenza su una parete di un piccolo dipinto, dai colori stinti per le macchie di salnitro, con una insolita e allusiva rappresentazione: un soldato in piedi, una donna vestita di nero in ginocchio dinanzi a lui e un vecchio che osserva i due seminascosto dietro una porta.
In basso, a destra, le iniziali dell'autore, una Effe e una Pi, in alto non so se di epoca successiva, il titolo a matita "Le male porcarie di Melchiorre".
Purtroppo le uniche tracce dell'illustrazione furono distrutte facendo saltare l'intonaco a colpi di scalpello. La seconda volta che misi piede nel locale una vistosa chiazza bianca occupava il posto dove per tanti anni la storia, tragica e boccaccesca, era stata licenziosamente raccontata e commentata.
Solo dopo aver iniziato le mie ricerche compresi appieno il significato e l'importanza del prezioso documento figurativo.
 
 

L'Ottocento dietro l'angolo romanzo di Paolo Chiaselotti