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NUOVE MINACCE
Dovevo capire se tutti i delitti di cui vi ho parlato avessero un legame comune
e quale segreto, a me ignoto, si celasse nelle pagine del mio sito.
Ricorderete che mi ero recato nell'archivio diocesano per cercare appunti manoscritti
dell'autore della Cronistoria. Aspettai qualche settimana sperando di non trovare
nessuno dei due sacerdoti ai cui defunti avevo rivolto parole blasfeme, quindi suonai
al citofono.
Un "Chi è?" che non attese risposta mi aprì la porta.
Scesi le scale che conducevano nell'archivio e vi trovai Don Sigismondo che contava
nelle mani di Geppino, l'imbianchino, varie banconote.
Interruppe un istante l'azione per vedere chi fosse arrivato. Ci salutammo reciprocamente
senza calore.
Uscito l'imbianchino, restammo l'uno di fronte all'altro per alcuni secondi.
Avrei voluto esprimergli le scuse per le parole volgari che gli avevo rivolto al
risveglio dell'incidente, ma quel pagamento a cui avevo assistito mi fece nascere
il dubbio che l'incidente non fosse stato affatto casuale e che, addirittura, le
cose non fossero andate esattamente come mi erano state raccontate.
Non era possibile che fossi stato aggredito per impedirmi di vedere qualcuno o qualcosa
che avrebbe potuto comprometterli?
Don Sigismondo interruppe i miei pensieri dicendomi: "Scusatemi per l'altra
volta. È colpa mia se vi sono caduto addosso."
Poi mi chiese in che cosa poteva essermi utile.
Gli spiegai che cercavo qualche nota scritta da un sacerdote vissuto nell'Ottocento,
il teologo Salvatore Cristofaro. Mi rispose che non esisteva un fascicolo a se stante,
ma avrei potuto cercare "qualche appunto" nelle cartelle riguardanti
quegli anni.
Erano più di cento cartelle con i relativi fascicoli interni: un lavoro che
avrebbe richiesto tempi lunghissimi.
Don Sigismondo comprese le mie perplessità e aggiunse: "Al seminario
abbiamo due ospiti stranieri che stanno facendo ricerche sui loro antenati. Se volete,
potrebbero darvi una mano."
Quando sentii che i volontari erano due stranieri chiesi se si trattava di un brasiliano
e di una statunitense.
"Si ..." mi rispose piuttosto sorpreso e aggiunse: "li conoscete?"
Mi appoggiai al tavolo che ci divideva e risposi senza pensarci: "No".
Don Sigismondo si meravigliò della mia risposta. "Ma come, se sapevate
chi erano!"
In poche frazioni di secondo miscelai logica e convenienza.
Ne uscì una risposta ambigua: "Non li conosco, ma so che si trovano a
San Marco."
"Eh, già, per quella vostra ricerca sull'Ottocento ..."
aggiunse con l'aria di chi sa più di quello che dice "... speriamo che
qualcuno ve ne sia grato ..."
Quella chiusura mi spaventò, perché il tono era di un auspicio che
si sarebbe avverato a mio danno.
Neppure un ministro di Dio possiede poteri divinatori e, dunque, l'unica spiegazione
alle sue preoccupazioni era che don Sigismondo conosceva i reali motivi della presenza
dei due stranieri nel nostro paese!
Dovevo affrontarli uno alla volta, sperando che non avessero già avuto modo
di mettersi d'accordo sul modo migliore di eliminarmi.
Avevo un vantaggio: il fatto di conoscere tutti i segreti di una faida secolare,
mentre i due stranieri erano a conoscenza solo della parte che riguardava i loro
antenati.
Quel vantaggio, tuttavia, poteva essere la mia condanna, perché ...
I pensieri che mi arrovellavano la mente mi fecero, probabilmente, compiere un gesto
involontario con la testa, quasi a volerli cacciare. Don Sigismondo, notando quel
gesto insolito, mi chiese se avessi avuto qualche conseguenza dell'incidente occorsomi.
Risposi, senza riflettere, che si trattava di un incipiente morbo di Parkinson di
cui soffriva anche mia madre. Mi ricordai che era la seconda volta che rivelavo
a qualcuno una malattia di cui avevo iniziato ad avvertire segnali evidenti, anche
se finora non avevo avuto alcuna conferma di essere affetto da questo terribile
male. Forse, a livello inconscio, il timore di poterne un giorno soffrire, mi spingeva
ad allontanarlo parlandone ad altri.
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"Lo sapevo, me ne aveva fatto cenno ..." aveva iniziato a dire
il prete, quando lo interruppi ben sapendo quale sarebbe stata la sua risposta.
"Chi?" gli chiesi con un tono che era quasi un grido.
"Il brasiliano" fu la fredda risposta che mi aspettavo, ma che
non avrei mai voluto sentire da un uomo che affermava di servire Dio.
Fu la conferma che lui, un prete, era in confidenza e in combutta con un assassino.
Perché?
Possibile che i segreti che io avevo svelato su questa o quella famiglia riguardassero
anche la curia, al punto tale da decretare la mia morte?!
Cercai di ricordare se in qualche parte della ricerca mi fossi schierato a favore
dei giacobini.
Possibile che l'antico odio verso di loro continuasse oggi in una crociata contro
gli eredi di quell'ideologia e che ci fosse qualcuno che perseguiva gli stessi disegni
dei suoi predecessori? Certo, tutti sapevano della mia appartenenza politica e del
mio agnosticismo, ma non potevo credere che a distanza di duecento anni la Chiesa
avesse continuato la sua crociata sanfedista!
A meno che ...
Mi ricordai che la consorteria dei "G. di M.F." di fatto non si
era mai sciolta e i suoi membri continuavano a riunirsi in luoghi segreti.
Anche don Sigismondo faceva parte di quella setta? Cercai di dare un significato
più attuale a quell'antica sigla di fede borbonica, Gi ... di ... Emme ...
Effe ...
G come Grande ... Gerarchia ... Gruppo ... Giovani ...
M come Martirio ... Morte ... Maestranza ...
F come Forza ... Fede ... Fratellanza
Ripensai nuovamente al modo in cui era scritta quella sigla: G.di M.F.
Provai ad assegnare a caso una parola a ciascuna lettera. Non mi veniva nulla che
potesse collegare l'antica setta ad un nuovo raggruppamento occulto.
Chi può dire con certezza che cosa si nasconde dietro un acronimo!
Di una cosa ero sicuro: che se avessi potuto scoprire un braccio di Don Sigismondo
vi avrei sicuramente trovato una sigla al vetriolo uguale a quella dei suoi antichi
sodali.
Mi sorse nuovamente il dubbio sull'incidente in cui ero rimasto vittima: non poteva
essere stata un'aggressione per impedirmi di vedere qualcuno o qualcosa che non
avrei dovuto vedere?
Immediatamente mi vennero alla mente altri interrogativi a cui inutilmente avevo
cercato di dare una risposta: perché un imbianchino aveva trafugato due grossi
plichi con documenti, che cosa faceva realmente nel loculo vuoto che aveva ospitato
il cadavere di un prelato, perché gli erano stati consegnati tutti quei soldi?
Don Sigismondo mi osservava preoccupato, e i suoi occhi cercavano evitare il mio
sguardo. Ero teso. Gli avrei volentieri stretto le mani intorno al collo per fargli
dire tutto quello che sapeva.
Dovette accorgersi, forse dal viso, dall'irrigidimento del corpo e dal tremore delle
dita, che cercavo di mascherare stringendo con forza il bordo del tavolo, che avrei
potuto assalirlo. Arretrò di qualche passo, abbassando il capo e unendo le
mani, quasi a meditare su quella incauta risposta che lo aveva tradito.
Non gli diedi il tempo di riflettere e lo incalzai: "L'imbianchino quindi che
ho visto uscire con tutte quelle carte ..." Non volle o non poté
mentire. "Si, le ha portate a quei due ..." rispose immediatamente
ad una domanda per metà inespressa. Poi, sollevando su una spalla la mantellina
che lo rendeva simile ad un canonico dell'Ottocento, con un sorriso che esprimeva
il sottile piacere della vendetta, aggiunse: "Quei due amici la stanno cercando
da più giorni."
"Amici tuoi, vorrai dire!" risposi allungando un dito accusatorio
verso lui. Poi, di colpo gli voltai le spalle, lasciandolo in mezzo alla stanza
e salii di corsa le scale.
All'uscita una folata improvvisa di vento gelido mi oltrepassò il corpo.
Troppo gelida per una mattina di settembre.
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