LA NOTTE DEI VIGLIETTI
di Paolo Chiaselotti

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26. Giuseppe Quintieri si reca a vedere cosa accade. Incontra personaggio misterioso. Vede don Francesco morto. Rientra e si addormenta sul letto di don Gaetano

Peppino Quintieri, quando ancora le cose narrate non eran tutte accadute, arrivando alla piazza di sopra vide sopraggiungere dalla strada del seminario due persone. Pensò che, data l'ora col pericolo di fare qualche brutto incontro con malafabbene, forabbanniti, galiuoti e 'mbriachi, meglio era attendere per vedere chi fossero quegli individui e se fosse il caso di unirsi a loro. Quando furono a qualche metro di distanza li riconobbe per Micuzzo Ozzuddio Amatuzzo e Fedele Vivona, il primo barbiere, l'altro calzolaio. Li conosceva bene e si sentì rassicurato. Imboccarono insieme la strada della Monache mantenendosi sotto il lungo balcone del palazzo Campolongo, dove il margine della via era meno innevato.
Peppinello volle dar conto del suo camminar di notte e disse che stava scendendo per andar incontro a don Gaetano e Don Luigi che con tutta quella neve può darsi avessero bisogno di un bastone. E mostrò loro il palo che teneva sottamasculo. I due compagni di percorso gli riferirono che avevan sentito schiamazzi provenir da basso, che si udivano fin nel seminario, dove si trovavano per il loro mestiere. Peppinello non fece alcun cenno all'ubriachezza dei suoi padroni, anzi si disse preoccupato che gli stessi potessero incontrare qualche 'mbriaco con malintenzioni. Fedele, lo scarparo, in base ad una sua teoria ricavata dall'osservazione delle tomaie nei veri mesi dell'anno, spiegò che il freddo sarebbe continuato per tutto il mese di gennaio ricordando l'abbondante nevicata di tre anni prima, quando cucire le tomaie divenne così difficile da far supporre che la colpa fosse dei fratelli Talarico che gli avevano venduto pelli non di primo fiore. «No, di avanti d'anno.» lo corresse Micuzzo «Siamo nel quarantotto e mi ricordo che eramo nel quarantacinque.» replicò Fedele. «Tanto che …» e si fermò d'un tratto udendo voci concitate provenire dalla piazza di basso.
All'angolo del convento delle monache uno sconosciuto stava salendo, con mantello e coppola abbondantemente ricoperti di neve. Per evitare di capitare in qualche rissa, gli chiesero cosa stesse accadendo nella piazza.
«Niente che possa interessarvi.» rispose. «Anzi vi consiglio per il vostro bene di non arrivare in fondo alla strada.»
Poi si rivolse al giovane domestico, dimostrando di conoscerlo bene e, indicando il palo che reggeva in mano, disse: «Soprattutto tu, Giuseppe, corri un rischio maggiore rispetto ai tuoi compagni.»
«Chi siete e come mi conoscete?» avrebbe voluto chiedere Peppinello ma riflettendo sulla propria condizione di servitore, tacque. Lo sconosciuto salutò e si allontanò senza aggiungere altro.
«Chi è?» chiese Peppinello ai suoi accompagnatori. «Mai visto prima.» rispose Domenico. E Fedele: «Non è di Sammarco.» Poi volgendo lo sguardo a terra come attratto da un ritrovamento, disse: gli è caduto qualcosa. «Ehi, cumpà!» chiamò Fedele rivolto alla sagoma scura che li aveva appena lasciati.
«Cumpà à perso na cosa!» Ma quello senza voltarsi scomparve alla loro vista appena superato l'angolo di casa Candela.
Fedele si chinò a raccogliere ciò che l'uomo aveva perso: era un coltello, un coltello da caccia. Lo lasciò immediatamente cadere là dove l'aveva raccolto, preoccupato di aver avuto a che fare, anche se per un istante, con faccende che potevano interessare la giustizia. Poi, guardando con sospetto il giovane che si era unito a loro, gli chiese come mai quello sconosciuto conoscesse il suo nome.
Le grida dalla piazza, l'incontro con quell'uomo e il timore di qualche guaio indussero i due mastri a separarsi dall'occasionale compagno e ad infilarsi nell'oscuro sottoportico di casa Conte che portava al Critè. Peppinello proseguì cautamente con il suo palo bene in vista, pronto ad usarlo se fosse stato necessario. Per prudenza decise di raggiungere la piazza dal lato del Puzzillo e, giunto alla fine della discesa, imboccò l'arco tra le case La Regina e Ambrosiis. Ancora intontito dal vino e nonostante la sua scarsa perspicacia, o forse proprio a causa di questa, continuava a domandarsi chi fosse il tizio che conosceva il suo nome e se avesse fatto bene a non mettersi in tasca il coltello: ancora non ne possedeva uno. Si diresse verso il luogo da cui provenivano le voci che ora distingueva chiaramente: «Fuocu mia, fuocu mia!!»
Accelerò il passo, quindi si mise a correre, scivolò sulla neve, si rialzò, riprese a correre con il palo sollevato, pronto a colpire chiunque lo avesse aggredito.
Fu urtato da gente che correva, cadde di nuovo, si rialzò, chiese ad una donna che cosa fosse accaduto. «Don Gatano, u patrunu tua …» Non finì la frase, lasciando Peppinello, lì, solo, che balbettava «Do-do-do-doggatà» incapace di pensare.
«Allontanati, vattene, butta via quel palo». Si voltò per vedere di chi fosse la voce alle sue spalle. Era quel tizio che conosceva il suo nome, con gli occhi rivolti a terra come se cercasse qualcosa.«Che succede, signore, perché tutti corrono verso la casa di Matalena?» gli chiese.
«Vattene via, torna a casa!» gli ordinò l'uomo senza rispondergli e continuando a guardare a terra.
Dal balcone della casa Cristofaro qualcuno chiamava: «Ciccillo, Ciccillo». Peppinello alzò il capo e vide don Antonio, il volto imbrattato di sangue, che continuava a gridare il nome del figlio.
«Che cosa è successo, che cosa sta succedendo, non ci capisco più niente. Ohi madonna mia!» diceva tra sé, poi rivolgendosi a quell'uomo che conosceva i nomi delle persone: «Si-si-signore,» balbettò cercandolo con lo sguardo «Si-si-si-signo …» Era sparito.
Seguì il flusso delle persone, le braccia abbandonate lungo i fianchi, senza più il bastone.
Continuando a chiamare debolmente «Do-do-doggatano, do-do-doggatano» giunse dinanzi la porta di Salvatore Scarpello. Sentì che tutti facevano il nome del suo padrone. Chiuse gli occhi, si fece il segno della croce, entrò nella casa, facendosi largo tra la calca di persone in cerchio intorno ad un letto. Allungò la testa, la abbassò, la sollevò nuovamente, la spostò di lato cercando di scorgere il defunto, perché, dai pianti e dalla disperazione tutt'intorno, certamente su quel letto doveva esserci un morto. Gli parve strano che tutta quella gente fosse accorsa in quella povera casa così di corsa, gridando, a meno che non fosse accaduta una disgrazia. Un piccolo spiraglio gli permise di vedere il volto di …
«Ge-Gesù e Ma-Maria, Ma-ma-madonna mia, don Ciccio!!» Sangue sul corpo, sangue sulla coperta e, a terra, altro sangue. Girando lentamente la testa seguì le tracce e si accorse che ve n'erano anche all'esterno della casa.
Il gelo lo avvolse alle spalle, sul collo, alle tempie. Intrecciò le mani, se le torse, le sciolse e le portò alla bocca. «Chi-chi-chin'è sta-sta-statu?» chiese senza parlare. «Don Gatano.» tutti facevano il nome di don Gatano. Doveva scappare, andarsene da quella casa, prima di essere riconosciuto come il servo dell'assassino, altrimenti lo avrebbero ucciso. Per vendetta, per odio, perché anche lui voleva che don Ciccio morisse ed era morto davvero, anche se non aveva mai detto «ammacardìo». Riuscì a salvarsi grazie al desiderio di essere lontano da quel luogo e di trovarsi a casa, già a letto. Si sollevò in aria, sopra le teste di tutti gli altri che rimasero stupiti accanto a quel cadavere, e volò fuori dalla porta. La neve picchiava sul viso e sugli occhi mentre sorvolava il vicolo del Puzzillo, si abbassò un poco, si infilò sotto l'arco della Giudeca, ne uscì e si alzò nuovamente, parallelo alla strada, lungo il corso che lo riportava da donna Fiorina. Vide l'uomo sconosciuto. Si abbassò e posò i piedi a terra, sulla neve, davanti al palazzo Campolongo. «Si-si-signore,» gli disse meravigliato notando che aveva cambiato volto e aspetto, senza più il berretto, con la giacca e i capelli imbiancati, «hanno am-am-mazzato don Ciccio.» «Ah!» rispose don Luigi, posandogli una mano sulla spalla «me ne dispiaccio molto ma quando la notte passerà tutto tornerà come prima.» Entrarono in casa chiamando a gran voce don Gaetano: «Gaeta', Gaetano» , «Do-do-dogga-ta', do-do-dogga-noo.»
«Va ti curca, ch'è tardi.» gli disse don Luigi, aprendo la porta della propria camera. Peppinello prese un lume e andò nella stanza in fondo al corridoio, continuando a chiamare sotto voce il suo padrone.
Bussò due volte. Poi lentamente aprì la porta. Sollevò il lume e guardò verso il letto. Sembrava vuoto. Avanzò lentamente, toccò le coperte. Don Gaetano non c'era. Posò il lume sul comodino, si coricò sul letto tirando sopra di sé un lembo della coperta. «Quando torna mi alzo … quando torna mi alzo … mi alzo …» e si addormentò.

27. Gaetano Papa a casa di don Antonio ferito, va a chiamare il medico Luigi Sarpi, viene a sapere che don Francesco è stato ucciso

Gaetanino Papa, dopo essere risalito pel vicolo tra i palazzi dei baroni Selvaggi e dei signori Ruffo, si era appostato sotto l'arco d'Arcuri, a fianco della chiesa di San Giovanni, deciso a gettare addosso a quei quattro gangoni la merda che si meritavano, quando sarebbero tornati indietro. Da quella distanza, all'altro lato della piazza, assistette incredulo a ciò che in pochi istanti avvenne sotto la casa di don Antonio Cristofaro: gli sberleffi di don Gaetano, il rimprovero dello zio, la lite, lo schiaffo, l'aggressione con un palo e con lo stocco, i calzolai sotto casa, prima chiusi nelle botteghe, poi a gridare aiuto e a soccorrere don Antonio, dalle finestre le figlie che gridavano «papà, papà», Serafino che aiutava il padrone ferito a salire in casa. Gettò l'involto con gli escrementi nella piazza e corse verso la casa del notaio.
Un padre, un secondo padre, da quando gli era morto il padre vero: tre anni lui e sette il fratello Domenico, don Antonio si era preso cura di loro, la sua casa era aperta, come il cassone dei fichi e la cucina. Se era mastro muratore alla sua età lo doveva a lui. Correva e gli si rigavano le guance di neve e di lacrime. L'odio cresceva: «Altro che merda, una pistulata in fronte!! a don Gatano, e n'atra a do' Luigi, prievitu i malacapizza!» La porta era socchiusa, Gaetanino salì di corsa le scale e si trovò di fronte don Antonio seduto su una poltrona, una profonda ferita alla testa e il volto ricoperto di sangue, che inutilmente le figlie cercavano di fermare.
«Và, và chiama subbito don Luigi Sarpi, fuia!!» gli disse appena lo vide donna Aurelia, mentre teneva la mano del marito tra le sue. Gaetanino, senza farselo ripetere, ridiscese le scale percorrendo nuovamente di corsa la piazza e la strada sotto la casa Valentoni fino a raggiungere il portone di casa Sarpi, al Critè.
«Dolluiggi, Dolluiggi, curriti! Hannu spaccata a capu a Donnantonio!» Don Luigi Sarpi, il medico, fin dalla mattina aveva il presentimento che sarebbe accaduto qualcosa: ciò che aveva sentito a casa de Chiara, le canzoni da trivio che aveva udito alle monache, le grida alla piazza gli avevan messo addosso un malessere inspiegabile. Ed ecco ora giungergli da sottocasa la voce di Gaetano Papa, il muratore, che gli annunciava una disgrazia. «Hanno spaccato la testa a Don Antonio.» ripeté tra sé «E chi è stato? perché?» cominciò a chiedersi mentre riponeva i ferri nella borsa. Vi aggiunse anche il revolver, dopo aver controllato che fosse carico. Sotto casa l'aspettava il messaggero di casa Cristofaro al quale chiese, strada facendo, ragguagli sull'accaduto. Le ingiurie di don Gaetano, la reazione di don Antonio, la lite, il ferimento con un palo e con un ferro: il racconto di Gaetanino confermò i presentimenti del dottore Sarpi. Era accaduto quello che temeva e che tutti si aspettavano che accadesse da un giorno all'altro. «Pure don Ciccio ha abbuscato, ma è fuiuto du Puzziddru!» aggiunse il giovane.
«E adesso dov'è?» gli chiese il dottore fermandosi solo per un istante. «Nun u sacciu.» fu la risposta.
Don Luigi entrò nella stanza e vi trovò don Baldassarre Conte che stava osservando la testa di don Antonio. Don Luigi già da lontano si rese subito conto della profondità della ferita. Si accostò con rispetto al collega più anziano, mentre questi estraeva dalla borsa un panno bianco di lino. Don Luigi lo aiutò a ripiegarlo più volte e a sistemarlo sulla ferita, poi chiese ad Aquilina, la figlia di don Antonio, di continuare a tener premuto il lino, mentre lui avrebbe provveduto alla fasciatura. Le mani di lui che avvolgevano la benda si incrociavano con quelle di Aquilina, così pure gli sguardi fugaci che l'uno o l'altra, all'occasione, si scambiavano. Don Baldassarre lasciò che fosse il giovane medico a compiere quelle operazioni, e quando questi ebbe terminato, disse che la ferita era profonda e poteva sviluppare infiammazione, poi rivolgendosi a don Luigi come se fosse l'unico a conoscere l'anatomia umana spiegò: «Ha interessato il cuoio capelluto e il muscolo sottoposto, fortunatamente sul sincipite a parte posteriore destra» aggiungendo che però «poteva essere pericolosa per gli accidenti»
«Dottò, lassa perdi a capu.» disse don Antonio che nel frattempo si era ripreso, «Iati circati tutti a Ciccillo!» Il fatto che avesse usato il dialetto era un buon segno pensò don Luigi, ricordando che le parole usate erano le stesse che gli aveva rivolto alcuni anni addietro allorché aveva notato uno sguardo di troppo verso Aquilina. «Dottò, lassa perdi Aquilina, ch'è ancora guagliuna!» gli aveva detto con fare paterno in dialetto. Quando don Antonio parlava in italiano c'era da averne timore, o perché irato o preoccupato. In quel momento sembrava convinto che l'aggressività del nipote Gaetano si fosse scaricata tutta sulla sua testa, per fortuna senza funeste conseguenze. E ringraziava Iddio che lo aveva salvato da quel malafabbene. L'indomani lo avrebbe denunciato, gli avrebbe fatto passare i vizi, e così via discorrendo in dialetto stemperò la tensione che fino a quel momento aveva sopraffatto la serenità familiare. Mentre sulla testa di don Antonio si attardavano questi propositi e le mani amorose di don Luigi e di Aquilina, don Baldassarre gli chiese chi altro ci fosse assieme a Gaetano e il ferito gli elencò i nomi di quelli che riconobbe e altri che per il buio non riuscì a vedere: «C'erano i due baroni Campolongo, Giacomo e Salvatore, sicuramente, poi il servo di don Luigi che non mi ricordo come si chiama …» «Giuseppe Quintieri.» precisò il dottore. «Sì, poi c'erano … ci dovevano essere Carluccio, il fratello di Gaetano, uno più lontano m'è parso Vincenzo Talarico, il fratello di don Domenico …» continuò con evidente sofferenza, sia per il dolore sia per la difficoltà di ricordare esattamente volti e persone in quei drammatici momenti. Si fermò un istante a pensare e poi illuminato da un subitaneo ricordo esclamò: «Ah … Eugenio, il farmacista, Eugenio Romita! Si pure lui!»
«Don Anto',» gli raccomandò il medico «dovete stare attento, che se non sono loro quelli vi denunciano per calunnia!» E dopo un po' aggiunse: «È possibile che l'emozione, il colpo alla testa …». Non finì di parlare che, simile alla nuvola Jannivoi che da Torano raggiunge il cielo di San Marco annunciando tempesta, così il rumore di passi rapidi lungo le scale e il respiro affannoso di Rosaria Scarpello preannunciavano qualche notizia ferale. Così fu.
La messaggera si fermò un istante sulla soglia della stanza, stette immobile e muta, quindi dal petto che aveva trattenuto il respiro e con esso la malanova, uscirono le parole che nessuno avrebbe mai voluto udire. «Don Ciccio, è morto. Ammazzato! Alla casa nostra.» disse con un tono di voce così flebile da essere appena udito dagli astanti. «L'ha ammazzato do' Ggatano.» gridò per fugare il sospetto di una colpa che potesse riguardare la sua famiglia.
Rosaria, la giovane figlia di mastro Giuseppe Scarpello, aveva fatto ciò che le era stato ordinato di fare e lo fece con tanta sollecitudine che ora, ferma, stremata, le braccia abbandonate lungo i fianchi, era in attesa di una reazione al suo messaggio: pianti, urla, disperazione, imprecazioni, corpi che si abbracciavano, spalle che offrivano conforto a volti ridotti a maschere.
Niente di tutto questo.
Le sue parole, i suoi piedi scalzi, l'aria di neve che con lei era penetrata in quella stanza avevano raggelato i presenti. Poi lentamente, come se tutto riprendesse moto e vita, le donne accostarono le mani alle bocche ammutolite quasi ad impedire l'uscita del dolore che attanagliava il petto, gli uomini si mossero in direzioni diverse, dapprima indecisi poi con sempre maggior determinazione. Gaetano, quasi dimenticato da tutti, si staccò dall'angolo in cui era rimasto per tutto quel tempo e si precipitò per le scale, il dottore lo seguì, poi si fermò, ritornò indietro, rimise quel che aveva tolto dalla borsa di cerusico, controllò che ci fosse la pistola, e scese anche lui le scale. Allora, in quel momento, uscì dalla bocca di Aquilina il dolore represso, con un lamento lungo e aspirato seguito da singhiozzi e parole bagnate di lacrime. Le donne si abbracciarono, poi le figlie si strinsero intorno alla madre, ognuna tenendo l'altra, dimentiche del padre che sollevandosi, senza aiuto, spalancò con l'energia di un giovane le imposte del balcone e, affacciatosi gridò alla notte e al mondo: «Caino, Caino, Cainooooo», finché non cadde svenuto per il dolore.

28. In casa Scarpello. Salvatore narra l'omicidio a cui ha assistito

La casa di mastro Giuseppe Scarpello era già piena di gente, chi entrava cercava di accostarsi il più possibile al letto dove giaceva l'ucciso, chi per esser certo delle voci che giravano, chi per vedere l'ucciso, chi per morboso desio, chi perché mandato. Chi era entrato, a stento ne poteva uscire, data la calca. Don Giuseppe e la moglie Matalena erano lì, quasi fossero i genitori dell'ucciso, a dar conto a domande, dubbi, commenti su ciò che era accaduto, e perché, e come, e quando … E chi era stato.
I primi ad esser entrati avevano portato fuori la notizia di ciò che era accaduto. Tutti ormai sapevano che don Francesco Cristofaro, il figlio del notaio don Antonio e di donna Aurelia Caruso, era stato ammazzato dal cugino, don Gaetano Cristofaro, il figlio di don Domenico bonanima e di donna Pasqualina Campanile. I nomi erano detti ora in un modo ora in un altro a seconda dell'appartenenza sociale di chi poneva le domande e di chi rispondeva, ma tutti avevan appreso chi fossero l'omicida e la vittima.
La neve, che fino ad alcuni minuti prima era una candida coltre, con il passare continuo delle persone che andavano e venivano con il loro piccolo o grande carico di informazioni, si stava trasformando in mota sudicia.
Salvatore fu avvicinato da tante persone, prima che dal giudice, perché raccontasse chi aveva ucciso don Ciccio. A tutti ripeteva con uguale disperazione i momenti drammatici del delitto: Don Gatano che colpiva con lo stocco, don Ciccio che chiamava papà, che supplicava di non essere ucciso, che gli diceva che ti ho fatto e che quando vide lui gli disse Salvatore aiutami. E lui cercò di aiutarlo come poteva, prendendo alle spalle quel vastaso, cercando di togliergli il ferro dalla mano ma in quel zangaro non era facile che si scivolava e il vigliacco allora aveva approfittato che lui era a terra ed era scappato sempre con quel ferro rosso di sangue in mano.
Riprendendo un po' di fiato continuava il suo irruento racconto. Aveva cercato di inseguirlo quando si era infilato nel vicolo ed era passato avanti la casa di De Pietro, poi era scuro i passi non si sentivano che c'era la neve ed era ritornato indietro e aveva trovato il morto in casa che ce l'avevano portato il padre suo e la madre e le sorelle. E mo' era lì senza vita sul suo letto che lui glielo avrebbe dato come ad un fratello maggiore ma non avrebbe mai pensato da morto.
Salvatore riprendeva ancora fiato e poi spiegava che anche don Luigi doveva c'entrare perché appena lui era ritornato che aveva inseguito don Gatano, aveva trovato al fratello prete in casa che minacciava pure i suoi che dicevano che ad ammazzare don Ciccio era stato il fratello. A lui gli aveva messo le mani in petto e gli aveva detto: «Cu mmia t'ana vidi!» che non sono parole da dire da un prete, come quella che aveva detto al morto: «Ha finitu di fa' u spiertu!» o «Mo ti passano i vizzii!» che non ricordava bene. Ma quando mai don Ciccio in vita aveva fatto cose male, che era un pezzo di pane che …
E qui si interrompeva piangendo e prendendo la mano ormai fredda di don Ciccio.
Chi annuiva, chi muoveva il capo, chi usciva per timore che quelle frasi potessero comprometterlo.
Così di voce in voce anche il numero delle persone coinvolte si accrebbe e gli uccisori divennero due: don Gaetano e il fratello don Luigi, canonico «Uomini di pesantissima morale, capaci di commettere qualunque eccesso, perché soliti ad andar sempre muniti di arme vietate ed effettuire azioni scandalose durante la notte siccome potrebbe deporsi dall'intera popolazione.»

29. I luoghi e i curiosi

Intanto a San Marco la voce si era sparsa rapidamente facendo accorrere decine di curiosi, tutti che cercavano di entrare nella casa di mastro Giuseppe Scarpello, da dove la notizia era uscita, per verificare di persona se don Francesco, il figlio di don Antonio, fosse stato ucciso.
Le voci che indicavano apertamente don Gaetano come assassino non facevano mai cenno ai nomi degli altri complici, ma lasciavano intendere da una serie di indizi veri o presunti che potessero essere più di uno.
In breve dinanzi le case di mastro Giuseppe Scarpello, di Michelina Ferraro, di Beatrice Andreolo, di don Nicola Bova, di don Peppino Coco, di don Giuseppe Campagna, di Francesco Caldieri, lungo il vico Puzzillo, sul largo di Santo Pietruzzo, lungo la via tra Cristofaro e Campagna, nella vineddra tra questo palazzo e la casa di mastro Giuseppe Talarico, nell'altra fra Tocci e il retro di casa Perrotta si formarono gruppi di curiosi e di vicini avidi di conoscere non solo cosa fosse accaduto ma quello che ancora poteva accadere. Attesero l'uscita di don Antonio Cristofaro prima dalla sua casa e poi da quella di Scarpello ove giaceva il corpo esanime del figlio, attesero il passaggio di don Luigi, videro arrivare il giudice e udirono i suoi ordini alle guardie di allontanare i curiosi e di trattenere tutti coloro che avevano visto qualcosa e coloro che abitavano nella zona. Anche sul lato della piazza, sotto la casa di don Antonio, i calzolai con le botteghe al piano terra, i curiosi, coloro che avevano assistito alla rissa e al ferimento, amici di famiglia, compari e comari, simili a formiche che trasportano carcasse e detriti entravano ed uscivano dalla casa dell'ucciso scambiandosi le notizie apprese.
La voce era corsa di casa in casa. Coloro che dormivano furono svegliati: chi dal vocio, chi dalle grida, chi dagli stessi familiari. Chi era già sveglio si affacciò sull'uscio sentendo tante persone transitare, parlare, discutere animatamente. «Alla chiazza!», «Don Cicciu Cristofaru è statu ammazzatu!», «Anu ammazzato a Don Cicciu Cristofalu!», «'U muortu è alla casa 'i mastro Giuseppe, allu Puzziddru», «È statu u servituru 'i donna Pasqualina Campanile», «Sì, don Ciccio l'ha trovatu alla casa i Ninunuzza!», «No, para che è stato do' Gatanu Cristofalu, u cuginu!», «Sta muriennu puru don Antonio, u patre i don Ciccio.» «C'ha pigliatu na guccia!» «Don Cicciu è 'nta nu lacu di sangu!» «Cchiù di deci curtiddrate!!» Le voci accavallandosi prendevano percorsi diversi dalla verità che nessuno conosceva ma ognuno riteneva di possedere. Gente che usciva senza neppure coprirsi, chi senza scarpe, chi con la camiciola e uno scialle, chi col mantello che a stento copriva le brache di lana bianche, anche i ragazzi, mentre le madri li richiamavano: «Che po' esse pericoloso. Su' armati!», correndo sulla neve urtavano chi andava più lentamente per età o acciacchi. Nel volgere di pochi minuti le mura domestiche si vuotarono e i vicoli si riempirono di gente che sciamava verso i luoghi che le voci indicavano. Chi vi si era già recato faticava a rientrare, e facendosi largo con il corpo e con la voce, aggiungeva le sue notizie a quelle vaghe che si erano sparse inizialmente, alimentando ancor più la confusione e il moto di quella marea umana. I lumi cominciarono ad accendersi in successione e dalle finestre delle case, sia quelle povere che quelle palaziate, le luci mostravano sagome di altre persone che non potendo o non volendo lasciare la casa stavano ai vetri in attesa di ricevere notizie.
Una volta sul luogo ognuno si accostava a chi conosceva per ricavarne ulteriori informazioni e poi spostarsi in una posizione di maggior vantaggio. Lì, presso le case Cristofaro e in quella sottostante di Scarpello, il flusso si arrestava, come dinanzi ad un proscenio, dove gli astanti attendevano la comparsa degli attori.
Il mormorio continuo, qualche accenno di pianto e soprattutto gli occhi che scrutavano chiunque passava con la testa bassa o con atteggiamento di fastidio, erano la forma corale della tragedia che si era consumata.
Ogni tanto la piccola folla di persone si scansava per far passare i familiari, i medici, persone di riguardo o, quasi a scostarsene, quelle con cattiva fama. Così accadde quando passarono i medici Luigi Sarpi e Baldassarre Conte, il vicario don Nicola Bova, il canonico Pasquale Candela, lo stesso don Antonio, recatosi a vedere la salma del figlio e poi rientrato, il giudice Giambattista Cavallo, don Peppino Coco il regio commesso, i gendarmi con il loro brigadiere don Giovanni Annicchiarico. La gente accalcata sotto la scala si spostava per poi rioccupare la posizione perduta. Il passaggio di Maria Gaetana Madorno, triste ma bella come sempre, aprì un piccolo varco nella folla. Come uno scafo che frange le onde generando lo sciabordio dell'acqua così la giovane druda dell'ucciso passò in mezzo a tutti con gli occhi bassi provocando il mormorio sommesso dei presenti alle sue spalle. Solo Vincenzo de Cola, il calzolaio, quello che tutti chiamavano Margiano, si staccò dagli altri e fattosi incontro le disse senza alcun imbarazzo: «Ninu', mancu u bene ca ci vuliesi tu l'ha sarvatu a vita!». Lei si fermò, lo guardò in volto poi, facendo scorrere lo sguardo assente sui presenti fino a girarsi verso la parte alta del paese, disse con un filo di voce: «A morte l'è vinuta da casa sua stessa!» alludendo al cugino don Gaetano e alla di lui sorella Fiorina.
Le persone perbene disapprovavano, le altre, la maggioranza, erano d'accordo con Vincenzo, come pure i più corchiuti che elencavano le doti di Maria Gaetana che sarebbero state in grado di salvare don Ciccio.
Le finestre e i balconi dei palazzi circostanti rimasero chiusi, come in segno di lutto o per distacco dalla curiosità del volgo. Da palazzo Selvaggi qualcuno spiò attraverso le persiane, da quello opposto di De Ambrosiis, fece capolino qualche servitore, riferendo al vicario capitolare don Francesco, a letto ammalato, quel che stava succedendo.
L'anziano vicario non mostrando alcun interesse per le notizie che gli riferiva il domestico chiese soltanto se stesse ancora nevicando. Alla risposta negativa, gli ordinò di spegnere il fuoco e di andare a letto.
Erano quasi le ventitre o, per meglio dire erano quasi sei ore dalla notte.

30. La giustizia si mette in moto

Don Giovanni Annicchiarico era ancora sveglio, quando sentì canti e schiamazzi provenire dalla piazza di basso. I suoni, dalla sua casa situata poco più sotto nel quartiere Ser Andreace, giungevano un po' attenuati ma distinti. Sperò tanto che non fossero quegli scellerati dei fratelli Cristofaro, Gaetano e l'altro, il prete, don Luigi, e soprattutto che assieme a loro non vi fosse la brigata che aveva incontrato a casa De Chiara.
«Meno male» pensò «che me ne sono uscito.»
Si compiacque con se stesso per aver rifiutato con fermezza l'invito alla porchetta in casa di Don Luigi.
«Vallo a spiegare che c'era pure il brigadiere Annicchiarico assieme a loro!»
A chi dovesse dare spiegazioni non era difficile intuirlo: all'Intendente, al giudice regio, al sindaco don Gaspare Valentoni. Gli venne in mente che alle focacce con le alici c'erano anche i due nipoti di quest'ultimo, don Giacomo e don Salvatore. «Altre due belle teste calde!» aggiunse alle sue considerazioni.
«Speriamo che non combinino qualche guaio stanotte.» Tra le speranze si affacciò anche quella che riguardava la spalla forte dei fratelli Cristofaro, quel Vincenzo 'e Napole uscito da galera. «Portarsi dietro pure i servitori, come canaglie, per farsi rispettare!» Inutile dire che disapprovava quei comportamenti fatti di prepotenze, ribalderie notturne, brighe e quant'altro generassero il vino e l'estro del momento.
Poi sopraggiunsero le grida. Quelle di don Antonio, lo zio dei debosciati, che rimproverava qualcuno, e subito dopo le invocazioni di aiuto, «fuocu» e «fuocu mia», alcuni secondi dopo o forse qualche minuto.
Don Giovanni attese ancora prima di infilarsi gli stivali. Indossò la giacca della divisa, abbottonandola con cura, lentamente, sempre nella speranza che ritornasse il silenzio e con esso la quiete e il cessato allarme.
Così non fu, perché dopo alcuni minuti sentì un accorrere di persone fatto di passi frettolosi nella neve e di voci. Tese l'orecchio e riuscì a percepire alcune frasi, i nomi di don Francesco Cristofaro e del padre don Antonio, poi di don Gaetano e del servitore, ma ciò che gli tolse ogni speranza di poter godere il quieto vivere fu la parola: «Ammazzato» che udì pronunziare proprio davanti l'uscio. Aprì la porta e chiese all'uomo che in quell'istante stava passando assieme ad altri: «Che cosa sta succedendo? Cos'è tutto questo trambusto?»
«Don Giovà» rispose l'uomo rispettosamente «dicono che hanno ammazzato a don Ciccio Cristofaro»
«Per Dio e chi è stato?» chiese il brigadiere ritardando ancora di qualche minuto la sua entrata in azione.
Non ebbe nessuna risposta. Le persone continuarono a passare dinanzi a lui che si sistemava sulle spalle la mantellina e a ripetere come una litania: «Ossechi Doggiovà, ossechi Doggiovà». Gli ossequi a don Giovanni continuarono mentre il sottufficiale si faceva largo tra la gente che era accorsa in piazza. «Largo, largo, fate passare.» ingiungeva dirigendosi dove la calca appariva fitta, tra i palazzi Campagna e Cristofaro.
Imboccò la strada verso il largo Santo Pietruzzo. La luce che proveniva da casa Scarpello e le persone che si accalcavano alla porta gli fecero capire che quello era il luogo da cui iniziare la sua indagine.
Un «Largo!» più imperioso degli altri, alcune energiche spinte e infine un'imprecazione sull'uscio aprirono un varco nella mota umana che si era formata mobilissima sulla porta di mastro Giuseppe.
Ognuno scostandosi allargava le braccia quasi a voler mantenere aperto il passaggio all'autorità di don Giovanni e la prima fila per se stesso. Tutti guardarono in faccia il brigadiere per vedere la sua reazione a quanto già essi sapevano. Attesero invano che le parole gli uscissero dalla bocca che si serrò incurvandosi lievemente in basso, mentre gli occhi si aprivano come a rendersi conto di ciò che si presentava dinanzi: su un letto, immerso nel suo sangue, giaceva il corpo di don Francesco Cristofaro, il sostituto cancelliere. «Chi è stato?!» chiese con una veemenza da far supporre che il colpevole fosse tra i presenti.
«Chi sa chi è stato?!» si corresse immediatamente. «Don Gatano». La risposta venne dal fondo della stanza e a darla fu Salvatore, il figlio di mastro Giuseppe Scarpello. «L'ho visto con questi occhi, brigadiè …» «Don Giovanni» lo corresse la madre, aggiungendo a conferma: «E mi è morto alli piedi mia … Gatano mi ha ammazzato m'ha detto …»
«L'ho pure cercato di fermare, pareva un vastaso …»
«Chi?!» chiese don Giovanni Annicchiarico.
«Lui, l'assassino, don Gaetano Cristofalo!» quasi gridò Salvatore.
«Eh, andiamoci piano con le parole, giovinò. Assassino lo sai che vuol dire? …»
«Ma se gli sono saltato addosso mentre infilava al cugino con uno spito
«Spito?!» replicò meravigliato il sottufficiale «Che cos'è il spito?»
«U' spiedo, nu fierru, cume na spata, c'ha 'nziccata 'nti carni una, dua, tri bbote …»
Il mormorio dei presenti innervosì il brigadiere che intimò il silenzio, a tutti, Salvatore compreso. «Se l'ha ammazzato lo stabilisce il giudice e non il primo che passa.» disse lentamente don Giovanni con il tono di chi sa come vanno le cose della giustizia. Poi, fingendo di non aver udito un «Minchia!» pensato troppo ad alta voce da qualcuno dei presenti, si accostò al cadavere e chiese: «Siamo certi che è morto?»
Il «minchia» di prima fu ripetuto, questa volta ben distinguibile e appropriato. Il sottufficiale non toccò il morto e chiese se qualcuno lo avesse toccato. «Solo per metterlo sul letto …», «Quando m'è caduto alli piedi …», «Ppì esse sicuro ch'era mmuortu.» dissero uno dopo l'altro Maddalena Piemonte, la figlia Rosaria e il marito Giuseppe Scarpello.
«Mostratemi dov'è caduto.» chiese l'uomo d'ordine a Maddalena. «Dov'è quella zanga con il sangue.» indicò la donna mostrando con il dito il punto in cui si trovavano alcuni curiosi. Questi guardarono anch'essi sotto i loro piedi e quindi si scostarono lasciando un vuoto sul quale il brigadiere posò distrattamente gli occhi. «Allontanatevi tutti dal luogo del deli…» ordinò, correggendosi subito «… dal luogo in cui è morto l'infelice.»
Poi, scorgendo sulla porta poco distante don Peppe Coco, il commesso giudiziario, gli chiese se il giudice Giambattista Cavallo fosse stato avvertito. «Sì,» gli rispose l'altro «è andato a chiamarlo Gaetano Marone, la guardia civica.»
«Ah, ottimamente.» disse don Giovanni con l'aria di aver adempiuto personalmente a quell'obbligo, ma in verità contrariato che dal giudice non ci fosse andato un regio gendarme. «Dove cazzo sono Falbo e gli altri?» si domandò. Quasi avesse interpretato il pensiero del graduato, don Peppe Coco, consapevole delle meschine ambasce e delle invidie dei sottoposti giudiziari, volle rincuorarlo: «Le guardie regie sono alla ricerca di testimoni.»
I buoni propositi non richiesti anche in questo caso furono inapprezzati. «Ah, ottimamente.» ripeté don Giovanni con il tono di chi ha ben istruito i propri subalterni, ma sapendo che nessuno di loro lo aveva informato di quanto stava accadendo gli parve di aver detto: «Figli di gran puttana!»
Don Giovanni Annicchiarico, venuto a San Marco da Castelnuovo di Conza, in Principato Citro, fiero della sua nomina a gendarme di prima classe, ricordò le parole dell'anziano padre, Michelangelo: «Fatti rispettare, che noi Annicchiarico non siamo mai stati secondi a nessuno!». Trentasei anni portati ottimamente bene, sia nell'aspetto che nella parola e ancor più nell'azione, a servizio della giustizia da diciotto anni.
Era immerso in questi pensieri, quasi sull'attenti, quando entrò nella stanza il giudice, Giambattista Cavallo, seguito da don Peppino Coco. Don Giovanni li salutò portando la mano alla visiera.
«Avete già fermato i testimoni?» chiese il giudice dimostrando di essere informato del delitto.
«Sissignore!» rispose il sottufficiale mentendo, con la speranza che quanto gli aveva riferito il regio usciere fosse vero. «Li ho mandati io stesso nell'immediatezza del fatto.»
«Bene, andiamo a sentire innanzitutto don Antonio.» disse il giudice rivolgendosi a don Peppe Coco.
Salirono in casa del cancelliere e lo trovarono con la testa fasciata, circondato dai familiari, in lacrime, da amici e conoscenti. Poco distanti i cerusici don Luigi Sarpi e don Baldassarre Conte erano immersi in una discussione, a voce bassa, sulla morte di don Francesco. Si interruppero appena entrarono il giudice e lo scrivano. Anche le donne si allontanarono per permettere a don Giambattista di accostarsi al capofamiglia ed esternargli il proprio dolore.
«Don Antonio, purtroppo sono qui per dovere di ufficio, ma da uomo comune vi manifesto i sentimenti più sinceri per la tragica perdita del vostro amato figliolo don Francesco …»
Il pianto di don Antonio aprì quello corale delle donne, cosicché vi furono alcuni minuti di imbarazzato silenzio da parte del giudice, del sottoposto, dei due medici e degli altri uomini presenti.
«Don Antonio siamo qui per sentire la vostra testimonianza dei fatti, da uomo d'onore quale voi siete, perché possiamo noi adempiere alla giustizia …»
Un cenno di assenso di don Antonio diede inizio alle formalità di rito: generalità del dichiarante, del giudice, data della verbalizzazione e via dicendo. Finalmente don Antonio poté narrare come si erano svolti i fatti.
Lo fece con frequenti interruzioni, sia per il dolore della ferita al capo, sia per i singhiozzi che gli impedivano di parlare ogni qual volta vi era un accenno al figlio e sia perché non ricordava alcuni nomi o riteneva che vi fossero più persone di quante ne aveva vedute realmente.
Don Giambattista lo ascoltò con pazienza, aiutandolo nei momenti di difficoltà o disagio, e anche don Peppe Coco, di tanto in tanto, interrompeva la scrittura del verbale per dare una propria parola di conforto.
«Siete sicuro che ci fossero anche don Carluccio, Carlo Cristofalo, l'altro vostro nipote, e don Vincenzo Talarico?» chiese il giudice notando qualche perplessità nel riferire i nomi di questi ultimi.
«Sono tutti una maniata di delinquenti!» sbottò don Antonio.
Il giudice, dopo aver fatto cenno allo scrivano di non riportare l'ultima considerazione del dichiarante, raccomandò al notaio di non lasciarsi andare a commenti, che quanto all'accertamento dei fatti avrebbe provveduto lui con ogni scrupolo. «Semmai, vorrei farvi riflettere che un'accusa senza fondamento potrebbe ritorcersi contro di voi, come sapete meglio di me, essendo anche voi legale.» gli disse con voce pacata.
«Ahimè, abbiamo nemici, molti nemici, di quelli che lo sono per invidia, di quelli che non ci vedono bene per essere uomini di legge, e di quelli che sono di idee avverse alle nostre di buoni regnicoli.» spiegò don Antonio, aggiungendo a corollario del proprio dire: «Voi che siete giudice, sapete quanti oggi pensano di rovesciare il governo, attentatori, sovversivi e …»
«Lasciate stare la politica, ora, don Antonio.» lo interruppe il giudice «e concentratevi sui fatti. Chi vi ha ferito?»
«Mio nipote Gaetano.»
«Avanti, don Antonio, senza che io vi faccia domande, raccontate tutto per bene. Dall'inizio.»
Raccolta che ebbe la dichiarazione, il giudice pregò il commesso di mettere a disposizione una sua stanza per la stesura del rapporto informativo al procuratore generale. Don Peppino non se lo fece ripetere la seconda volta: l'onore di avere in casa il giudice e la vanagloria di mostrare quanto fosse importante il suo ruolo di scrivano erano l'occasione che attendeva da anni. Il giudice chiese che ci fossero anche i due medici, Sarpi e Conte, per meglio descrivere le ferite su don Antonio e quelle mortali su don Francesco.
Don Peppino precedette il magistrato e i due medici, chiedendo alla folla di scostarsi che passava il giudice. L'ingresso della sua casa, sottostante quella di Cristofaro, era ostruito da decine di curiosi, che allontanati dal luogo del delitto si erano spostati di pochi passi verso il vico Puzzillo. «Prego, prego signor giudice» disse ad alta voce perché tutti sapessero chi era l'uomo che entrava in casa sua. Una volta entrati, prima di chiudere la porta alle sue spalle, rivolto a coloro che avevano allungato il collo fin oltre la soglia, sussurrò: «Stiamo studiando il caso. Vi chiedo un po' di pazienza.»
Corse su per le scale in preda ad una irrefrenabile eccitazione per accendere un secondo lume che pose sul tavolo, dove sistemò penna, calamaio, fogli e il registro delle deposizioni, quindi si mise a disposizione del giudice per scrivere la relazione al procuratore. «Agli ordini, eccellenza.» disse per celia, sognando di essere alla Gran Corte Criminale. «Don Peppì, non cominciate com'è vostro solito.» lo redarguì il giudice. «Scrivete senza fare commenti.»
«A circa le ore cinque della scorsa notte all'annunzio stragiudiziale di esser stato ucciso D. Francesco Cristofaro di qui, accorsi nell'abitazione del di lui genitore D. Antonio; trovai che realmente non più era in vita il D. Francesco, ed il genitore ha dichiarato che verso un'ora e mezza di notte il figlio D. Francesco andiede a portar la biada alla vettura, ed indi a poco rientrato disse esser stato inseguito fino alla grada con minacce di vita dal cugino D. Gaetano Cristofaro. Dopo un'ora e mezza udì tirar pietre alle mura della sua abitazione e far con la bocca …»
«Vernacchi o … petardi» suggerì lo scritturale.
«degli atti di scherno.» preferì don Giambattista, continuando a dettare.
«Egli il D. Antonio si affacciò e vide più persone. Stimò uscir fuori e trovò i suoi nipoti D. Gaetano suddetto e don Carlo Cristofaro, germani, …» «Ma siamo sicuri?» si interrogò il giudice «Don Carlo era al seminario, mi pare strano che si sia unito a don Gaetano … Mah!»
«il di loro servo Giuseppe Esposito …»
Il giudice ricordava quanto gli aveva riferito Gaetano Marone sulle voce raccolte. «Pure di lui, dicono che fosse Vincenzo, Vincenzo di Napoli, quello …» non finì la frase per non sembrare prevenuto verso un probabile imputato. «Va be', non ha importanza, tanto o l'uno o l'altro, lo mandiamo in esperimento al carcere e vediamo se confessa!»
Continuò a dettare: « i germani D. Salvatore e D. Giacomo Campolongo e D. Vincenzo Talarico di questo comune.»
«Eccone un altro …» si interrogò dubbioso, interrompendo la dettatura. «Don Vincenzo era a casa, l'ha visto pure Pietro Pagano, che abita di fronte a lui. Era a casa.»
Chiese, quindi, a che punto del resoconto fosse lo scrivano che puntualizzò: «Don Antonio Cristofaro dice al nipote di non disturbare …»
«Ah, sì.» disse il giudice orientandosi e continuando.
«Pregò al nipote Gaetano a non inquietare la sua famiglia, ma costui vi si avventò sopra e gli tira un colpo di stile cagionandogli una ferita che si è giudicata pericolosa di vita per gli accidenti.» «Dico bene, don Luigi e don Baldassarre? … pericolosa per gli accidenti …» chiese ai due medici. Avutane conferma, dettò il seguito.
«In questo mentre accorre il D. Francesco Cristofaro al quale l'Esposito tirò sulla testa un colpo di bastone. Il medesimo D. Francesco dietro il colpo si diede alla fuga e fu inseguito e dall'Esposito e dai germani D. Gaetano e D. Carlo Cristofaro e raggiunto a poca distanza ve lo lasciarono estinto a colpi di stili.»
«Ma se dite che don Carlo non c'era …» suggerì malaccortamente don Peppino fermandosi un istante di scrivere.
«Don Peppì,» replicò il giudice «stiamo scrivendo quello che don Antonio ha dichiarato, non quello che pensiamo io o voi!»
«Scusate.» disse il commesso riprendendo a scrivere. «Ha di vantaggio dichiarato che questo omicidio è stato commesso con premeditazione perché esistevano de' dispiaceri tra la sua famiglia e quella di suddetti suoi nipoti e D. Luigi di costoro germano, per una causa civile; che il D. Gaetano e D. Luigi erano dispiaciuti ancora del cugino D. Francesco perché credevano che costui avea denunziato presso del Sindaco che le loro drude erano gravide, e costoro chiamate ed avvertite a dar conto de' loro parti, ed avevano perciò esternato e profferite antecedentemente della minacce di vita.»
«Questo è vero!» osò il commesso scritturale, senza che ci fosse alcuna replica, tranne l'accenno di un sorriso da parte degli altri presenti.
«Ah, don Peppino, don Peppino, lo sbirro dovevate fare, non il mio segretario!» lo rimproverò bonariamente il giudice.
Don Peppino schermendosi quasi gli fosse stato fatto un complimento, non tanto per lo sbirro, quanto piuttosto per quel «mio segretario», riprese a scrivere con rinnovata lena.
Infine ha esposto querela contro tutti i cennati individui, cioè D. Gaetano, D. Carlo e D. Luigi Cristofaro, Giuseppe Esposito, D. Salvatore e D. Giacomo Campolongo e D. Vincenzo Talarico.
«Ora sono c… fatti suoi se qualcuno di questi lo denuncia per calunnia!»commentò don Giambattista giunto alla fine. Poi riflettendo su quanto avrebbe fatto immediatamente dopo, disse allo scrivano: «Aggiungete questo, don Peppì.» «Ho inteso alcuni testimoni e mi è riuscito di far assicurare alla giustizia l'imputato Esposito, e sarò per procedere all'autopsia del cadavere.»
«Ma questo ancora non è …» stava obbiettando lo scritturale.
«Lo so, lo so. Non è ancora avvenuto, ma avverrà immediatamente.» precisò il magistrato. Poi aggiunse, quasi ad anticipare ciò che avrebbe dettato da lì a poco: «Sentite, qui è meglio starne alla larga. Che lite tira lite tra signori e …» «I ciucci si litigano e i varrili si scasciano!» volgarizzò don Peppino con un proverbio paesano. Poi, ricordando le voci che volevano don Luigi Sarpi in simpatia con una donna di casa Cristofaro, rivolgendosi al medico disse: «Chiedo scusa, ma non c'era nessuna allusione nelle mie parole.»
Il medico, che la tragedia consumatasi aveva reso prudente e dubbioso delle sue scelte, non replicò.
«E poiché trattasi di una istruzione nella quale sono complicati individui di famiglie primarie di qui,» dettò il giudice con voce ben chiara « io la prego di farne personalmente occupare codesto funzionante da Istruttore, che subito si conferisca in questo comune.»
Don Peppino accennò con la mano ai soldi e il giudice toccandosi la fronte come fa uno smemorato nel ricordare la cosa più importante concluse: «È per questo motivo che io per espresso le rassegno il presente rapporto, e la prego autorizzarmi a …» Poi alzando la voce: «fargli pagare il pedatico come spera urgente nel processo».

Continua
 

La notte dei viglietti romanzo di Paolo Chiaselotti