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Sutt'a lingua : Curiosità e approfondimenti.


LA PARABOLA DEL PASTORELLO

Riflessioni in tempo di Pasqua e di Coronavirus

Il ricordo di un lamento incessante, sottocasa, simile al pianto implorante di un neonato, mi ha riportato ad un periodo pasquale molto lontano, quando, ancora ragazzo, affacciandomi dal balcone, vidi da dove proveniva quella voce così toccante: era il belato di un agnellino legato, immobile, adagiato a terra.
Da lì a qualche ora avrebbe cessato di piangere per finire rosolato nei piatti di tanti bravi cristiani, che grati al buon Dio, lo avrebbero gratificato di un "veramente buono", leccandosi le dita.
Oggi a distanza di tempo tanti bravi cristiani, come me, ce ne stiamo impauriti e segregati in casa, terrorizzati da tanti cattivi microscopici esserini, che potrebbero fare di noi pastura per i vermi.
E' Pasqua, per i cristiani giorno di risveglio in una nuova vita, sordi ai belati e pronti a leccarci nuovamente le dita il giorno immediatatamente successivo. Vorremmo farlo all'aperto, sulla tenera erbetta il cui il pastorello ha pascolato il tenero agnellino, ma purtroppo eventi incomprensibili e a noi nemici ci impongono di starcene a casa.
E allora direi che è giunto il momento della riflessione su che cosa rappresentino per noi, calabresi, l'agnello e il buon pastorello.
Cominciamo da quest'ultimo. Esso non è assolutamente un uomo, ma solo una sua parte e per di più una parte che non gli apparteneva, ma era in origine quella appartenuta alla sua innocente bestiola.
Lo so che la cosa vi appare incomprensibile, ma se siete effettivamente calabresi dovreste sapere che il pastorello ... calabrese, ovverosia "u pasturieddru", altro non è che la caviglia, cioè quella parte del corpo umano posta immediatamente sopra il piede.
E perché "u pasturieddru" non apparterrebbe a noi esseri umani, bensí all'agnello?
Per il semplice motivo che noi non pasturiamo, ma mangiamo, ingurgitiamo, divoriamo quanto più possiamo dalla terra, dal mare e dall'aria, liberi di farlo dovunque e comunque, senza lacci e lacciuoli che limitino il soddisfacimento dei nostri appetiti.
L'agnello, viceversa, viene legato ad una zampa per limitarne la pastura in un raggio di qualche metro. La parte della zampa legata è chiamata perciò "pasturieddru", proprio perché il pasto viene ridotto da quel laccio che gli impedisce di mangiare più del necessario.
E il pastorello, cioè il piccolo pastore che nelle altre parti d'Italia porta le pecore e gli agnellini al pascolo? Beh, quello in Calabria non esiste, perché è chiamato "picuraru", pecoraio. Si sa che le bestie, come gli uomini del resto, non sono tutte uguali, ognuna ha le sue esigenze e le sue abitudini, per cui "u craparu" sa pascolare le capre, e "u vaccaru" sa pascolare le bestie vaccine, e al tempo in cui si pascevano i porci alla loro conduzione era addetto "u purcaru". Tutti mestieri in gran parte scomparsi, assieme ai loro nomi, visto che è più vantaggioso allevare tutti gli animali in uno spazio ridottissimo, portando loro il foraggio.
Chi avrebbe mai pensato che un giorno anche noi saremmo stati chiusi in casa o, peggio, in un ospedale, "impasturati" da miliardi di virus decisi a limitarci non solo il pasto, ma anche affetti, relazioni, spostamenti, progetti, lavoro, guadagni e quel che è peggio l'elemento vitale per eccellenza: l'aria.
La Pasqua, prossima a venire, fortunatamente, non ha nulla a che fare con pastori, pastorelli, pasto, pasta, pascoli e via dicendo, bensì rappresenta per i cristiani il passaggio dalla morte alla vita e per i calabresi in particolare un augurio ripetuto due volte all'anno, il giorno dell'Epifania e il giorno della Resurrezione, con un'espressione dall'etimo antico:
"Bona Pascha" a tutti i sammarchesi.


Paolo Chiaselotti

San Marco Argentano, 8 marzo 2020