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Sutt'a lingua : Curiosità e approfondimenti.


SPIZZICULIANNU.

Spizziculia' è una voce della parlata locale che in verità non dovrebbe esistere, in quanto non ha una etimologia che la faccia derivare da un vocabolo dialettale, o di altra lingua qualunque essa sia, da cui ha tratto la sua radice. Tuttavia è usato ed è entrato a buon diritto nella parlata locale, finendo per soppiantare il più corretto spizzuliare attraverso ... la corruzione!
Chi sono i corruttori. Innanzitutto coloro che parlano l'italiano, ma forse anche qualche napoletano, e chi non conosce bene il dialetto calabrese. Fatto sta che un insieme di suoni a noi familiari hanno generato e imposto una nuova voce: ognuno di noi può divertirsi a cercare quali e quanti vocaboli sono contenuti in spizziculiare. I verbi che suggeriscono il ripetersi di un'azione si chiamano iterativi. Ad esempio basterebbe dire spizzuliare, ma spizziculiare con quel suo ziculiare che allunga l'azione, è più accostabile alle manine irrequiete di un adorabile bambino a cui daremmo volentieri un pizzichiellu.

Una parola, in fondo, è una voce, na vuci, un suono che al nostro orecchio sollecita altri suoni simili e con essi ricordi musicali. A beneficiarne sono due: chi la dice e chi la sente. A volte, però, il ricordo è labile e prevale essenzialmente il suono con il suo rinvio ad altra parola assonante. Ed ecco che nascono parole nuove che entrano a buon diritto nel novero delle tante voci che compongono il coro sociale. Parole sbagliate, verrebbe da dire, ma essendo comunicazioni l'essenziale è che ci si intenda.

Una volta conobbi una persona che per il gusto di far arrabbiare il prossimo se ne usciva con un epiteto inesistente preceduto dal consueto Eh!, introduttivo di un richiamo e seguito da un aggettivo che ricordava la fregatura, ad esempio: Eh, racciuoppulu afficatu!.
La reazione della persona oggetto dell'inesistente insulto era, nove volte su dieci, fortemente reattiva.
A chini sta diciennu, a mmia?!
Il motivo per cui una persona si sentisse offesa consisteva nel fatto che il contenuto dell'espressione richiamava alla memoria parole consimili, nel caso nostro scazzuoppulu e fricatu, che giustamente suonavano offensive.
Il mio amico, divertito, gli chiedeva se egli si sentisse racciuoppulu, sapendo che l'altro gli avrebbe detto certamente di no, e quindi gli chiedeva perchè si fosse arrabbiato tanto. La parte più bella era quando, alla fine dello scherzo, il mio amico domandava all'altro se sapesse cosa fosse un racciuoppulu.
Non ci crederete ma l'interpellato, nove volte su dieci, affermava di saperlo, ma di non volerlo dire!!

Nel piccolo dizionario del dialetto sammarchese (una raccolta di voci con i nomi dei suggeritori e qualche commento sull'origine e sulle variazioni del vocabolo originario) sono riportate alcune di queste corruzioni, il più delle volte dovute ad errata interpretazione in ambito familiare, ma anche a confusioni e commistioni con altre parole che presentano similitudini o assonanze.
Ho trovato spesso vocaboli aventi lo stesso significato, formulati diversamente. Non mi riferisco alla semplice vocale finale, che nella nostra parlata è quasi inesistente e spesso varia da persona a persona, ma ad una trasformazione, ad esempio scivarticu e scuvierticu, il primo riconducibile a qualcosa che attiene all'articolazione, l'altro a qualcosa di scoperto. Entrambi, a detta dei proponenti, significavano un malanno.
Qual è, però, la sostanziale differenza tra i due vocaboli? Essa consiste soprattutto nella trasformazione della "u" in "i" di cui abbiamo numerosi esempi. Giusto per citarne qualcuno, l'abbeveratoio "fuschìa" diventa "fischìa" e l'antico "stuvàlu" (sic!) assume la forma attuale "stivàlu", al pari di un "nobule" scomparso assieme al suo "nobile" successore!

Un'altra trasformazione avviene con le parole cosiddette dotte, prese direttamente dall'italiano e storpiate a seconda dell'interpretazione che di esse ne traeva chi si avventurava nel ... fronte nemico. L'esempio più esilarante che io abbia ascoltato mi è stato suggerito da un signore sempre alla ricerca di voci scomparse o rare. Si tratta di un oggetto oggi non più in uso che era il vaso in vetro, a caduta, dotato di cannula e beccuccio per i lavaggi intestinali o vaginali, l'enteroclisma, più comunemente clistere.

Bisogna sapere che anche nella lingua italiana, come per altri idiomi e dialetti, i termini che si riferivano ad uso intimo venivano edulcorati con altre parole, per cui il clistere era chiamato l'argomento o serviziale, cosí come l'orinale, il nostro rinalu, al Sud, era chiamato zu' peppe o semplicemente peppe. Bene, con la parola enteroclisma, composta dalle voci "entero" e "clisma", dal greco, con significato di lavanda, era chiamato sia il lavaggio che il contenitore.
Come avvenne la sua dialettizzazione? Entero fu trasformato in 'nteru per il suo accostamento con la voce intero piuttosto che con interno, ma non da tutti. Infatti alcuni pensarono a 'ndiru, altri a 'nduru e chi attenendosi alla voce originale a 'nderu.
E il clisma? L'accostamento naturale di questa voce fu a crisma per la ben nota intercambiabilità fonetica della L e della R, e da crisma, passando per il ricordo della cresima, si trasformò in crisimu, trattandosi di oggetto.

Restava da stabilire l'esatto suono di qualche vocale, il più delle volte lasciata all'arbitrio del "vocalista" (ahimé non siamo più padroni della nostra lingua!) ed ecco che il misterioso apparecchio finì per essere chiamato in tanti modi diversi*, ognuno dei quali rimandava a qualcosa o di duro o di piacevole o di non dolorante e via ... 'ndurruniannu, sempre legato ai sacramenti, considerando che al di là della sensazione provocata dall'introduzione del beccuccio nelle parti intime del malato, l'ultima parola in fatto di salute era sempre nelle mani di Dio.


San Marco Argentano, 31 agosto 2022

Paolo Chiaselotti

* Queste le versioni da me udite: 'nduru, 'ndulu, 'ndiru, enderu, unite sempre a crisimu pronunciate da persone diverse in circostanze diverse, in risposta ad una mia sollecitazione: "Come si chiamava una volta a San Marco il clistere, quel coso in vetro che si appendeva in alto ... ecc. ecc.".