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Sutt'a lingua : Curiosità e approfondimenti.


A vrascèra.

Il braciere, che oggi le nuove generazioni conoscono per averlo sentito nominare dai nonni oppure, i più fortunati, per averlo ancora in casa come pezzo d'antiquariato, era qualcosa di più di un contenitore di carboni accesi usato per riscaldare gli ambienti.
Intanto il braciere, a San Marco, era donna. Conteneva a vrascia e si chiamava a vrascèra, nel contempo fatica e raccolta di storie, anch'esse al femminile.

Il signor Salvatore Cipolla (familiarmente Bebè), riferendosi scherzosamente all'età di donne anziane, diceva "n'ha purtatu vrascere!", aggiungendo per chi non lo sapesse, che era consuetudine nei funerali accompagnare il feretro con bracieri accesi, portati da donne sulla testa, protetta dalla curuna.

Anch'io ho ricordi di vrascere e di donne. Donne che vi chiacchieravano intorno, ricordi un po' particolari, fatti di immagini e odori. I miei parenti, non so perché, erano tutti anziani o forse tali mi sembravano, essendo io un ragazzino.
I miei ricordi sono simili a lampi improvvisi e gli odori, sì gli odori, erano inconfondibili, come le immagini di calze nere fermate appena sopra o appena sotto il ginocchio da un elastico, o di gambe sazizzate per la costante permanenza vicine al fuoco. Ma gli odori li riconoscevo, perché diversi da casa in casa. Non sapevo ancora che le donne avessero il mestruo, e quando entravo in una stanza in cui la puzza superava ogni umana sopportazione, cercavo di scappar fuori, sottraendomi con forza a chi voleva trattenermi con carezze o allettandomi con promesse di confetti: Ma 'adduvi va' ca fa' friddu fora!, ed io infilavo di corsa la scala in legno che portava all'uscita al pianoterra.
C'erano sempre tante, quanto inefficaci, scorze di agrumi intorno e dentro al braciere.

I miei zii, i maschi, stavano al focolare, quasi quel posto spettasse solo a loro, rimestando la brace e mettendo altra legna. Li chiamavo tutti zii, erano tanti, tutti uguali in quanto all'età. Ce n'era solo uno un po' diverso, o forse lo ricordo tale perché accendeva i fiammiferi strofinandoli con un sol colpo sui pantaloni.
Le donne preparavano a vrascèra. Era compito, e credo anche abilità, loro. Stavano attente che non ci fossero legni carbonizzati non ridotti a brace, li toglievano e andavano a mettere il braciere dinanzi la porta, o sul balcone. Agitavano varie volte il ventaglio, fino a far diventare quel cumulo di legna o di carboni un riverbero fiammeggiante. Poi sollevavano quel piccolo inferno e, tenendo la testa girata da un lato tanto era il calore che emanava, lo posavano nel foro della pedana.
Cumma' abbicinati ... e tutte - ma quante erano?- si sedevano intorno con le spalle coperte dallo scialle.

A scuola il braciere lo portava in classe nonna Giulia Sciàbbola, alta capelli bianchi, bel viso da fiaba, lo posava a fianco della cattedra del maestro. Ricordo che ogni tanto andavamo a scaldarci le mani al braciere del maestro quando non era lui a scaldarcele con le bachettate. Era la prima classe delle elementari. Poi ci fu Amelia, Amelia Fatigàta, alla quarta elementare, lineamenti un po' arcigni. L'avrei rivista alla prima media Amelia, ultima epigona di rituali prossimi a scomparire.
Furono le tre classi che frequentai, qui, a San Marco. Le altre le feci a Trieste, dove c'erano i termosifoni, e non c'era bisogno del braciere. Né serviva la bacchetta.

Entrando nelle case al mattino non c'erano donne sedute intorno al braciere. C'erano i lavori da fare e ognuna se ne stava a casa propria. C'era sempre a vrascèra, ma era sormontata dall'asciuttapanni, che io chiamavo asciuga panni, senza capire che non era la stessa cosa. Capii a distanza di oltre mezzo secolo, che asciugare è l'inizio di un'azione e asciuttare è già l'azione: ecco perché al Sud i panni si asciugano prima che al Nord!
Comunque sia, su quel trabiccolo in legno, di cui tutti, oggi, mi chiedono immemori quale fosse il nome in dialetto -ma dove cazzo sono finiti preti, monaci e campane che ce n'erano in tutte le case- si mettevano tutti i panni, e l'umido della stanza si trasferiva sulle pareti e nelle ossa. Non nelle nostre di ragazzi, che eravamo a scuola, ma in quelle degli anziani che restavano a casa e che si spingevano sempre più dentro il focolare, dicendo ogni volta che faceva più freddo degli altri giorni. E fumavano, come i panni. Un pipetta fatta con una sorta di cannuccia e un fornellino di creta. E sputavano. Sempre. Ractate richiamate con insistenti ehhmm, ehhmm dagli accessi più profondi dei bronchi e sputate con violenza, quasi fossero intrusi, nel fuoco, assieme alla gastigna, o ad un gracidio di raganella che sembrava una bestemmia.

A vrascèra cu l'asciuttapanni,
    Cum'i fimmini alla vrascèra,
Va t'adduna s'a vrascèra s'è stutata,
    Mind'a vrascèra fora c'ancora 'unn'è fatta,
pezzi di storia, che oggi non dicono nulla, a nessuno, e restano, fin che dureranno, solo ricordi.

" Ancuna vota ni trovanu vrusciati ca ni mindanu sup'i giurnali! ",
" Ma va', va', ca s'era 'ppi tia stu poveru figliu era 'muortu 'i friddu " rispondeva mia zia al marito, infilando a stento sotto le coperte del mio letto quel catafalco composto da vrascèra e asciuttapanni.
" Ca tra pocu 'u liettu è bellu cavudu, bell'i zi-zì " mi diceva, a dispetto del marito.

Vedi anche   Dialetto   e   Curiosità

San Marco Argentano, 12 settembre 2022

L'immagine in alto è tratta dal sito www.cariatinet.it (A " vrascèra ": quando intorno ad essa era una gran festa)