Prima pagina | Curiosità | Immagini | Cronologia | Delibere | Argomenti | Cronaca | Cognomi | Emigrati | Mestieri | Strade | Contrade | Prezzi | Cronistoria
Questa pagina fa parte del sito "L'Ottocento dietro l'angolo"  www.sanmarcoargentano.it/ottocento/index.htm) di Paolo Chiaselotti

DALLA CRONISTORIA DI SAN MARCO ARGENTANO
DI SALVATORE CRISTOFARO

PARTE III - TEMPI MODERNI

Cap. II
Cap. III Cap. IV / 1
Cap. IV / 2
Cap. V
Cap. VI
Cap. VII /1
Cap. VII /2
Cap. VIII
Cap. IX

Capitolo III

Dei regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat

Il Colletta, citato di sopra, il quale parlando delle provincie meridionali, assicura che i fautori di repubblica erano si contrarii come dieci a cento; parlando delle Calabrie, poi dice: che sebbene lo stato di repubblica trovasse maggior numero di seguaci nei Calabresi, o perché bramosi forse di vendicare le patite ingiurie da feudalità più tiranna, o perché nella ruvidezza del costume e del vivere le primitive virtù di libertà serbassero; pure tenevano dalla parte del re innumerevoli cittadini potendosi benissimo affermare che i repubblicani dello intero stato stavano ai contrarii come al 10 al mille. (1)
Del tempo, del quale parliamo, gl'indipendenti, che combattevano, aris et focis, rappresentavano i seguaci del re. Cotesti che dalla parte avversa a dilegio e a vergogna eran chiamati briganti, segnano una delle fasi più luminose della nostra storia calabrese: perché solo addivenendo briganti  potevanoa guisa dei guerriglieri spagnoli di carlo Moore di Schiller contro gli stranieri e la tirannide del berretto frigio, sfidando i rischi della morte, anziché veder manomessi i loro propri diritti e la propria indipendenza scemata. Se i Calabresi allora corsero alle armi contro i temuti eserciti di Francia, di cui trentasettemila nutricarono col loro sangue gli abeti del nostro Crati, fu per difendere altari, donne e i focolari aviti. Invalsa la idea che i repubblicani andassero contro le chiese e i monasteri, cose sacre pel popolo, non si combatteva per favorire il re; né da parte alcuna vi aveva il concetto dinastico. Il re era emblema d'indipendenza, ecco tutto.
Dovunque s'eran spogliate chiese e soppressi monasteri cosa anche vista in S.Marco, dove se ne soppressero due, uno dei Paolotti, dei Cisterciensi l'altro; per questo la lotta non era contro la libertà ma contro gli stranieri, che ci toglievan tutto, onore, religione e patria.
Domenico Mauro ha incarnato cotesto concetto in una bella poesia sulla Calabria.
Chi ne avesse vaghezza potrebbe trovarla nella raccolta delle poesie dello stesso, che ai calabresi non deve essere ignota.
La Repubblica partenopea intanto cadde affogata nel sangue; nel 30 giugno il re giunse in Napoli, e in quella che il popolo si dava in pazze esternazioni di allegrezza, in mezzo al deploramento di lutti inconsolati e di lagrime, non ancora asciugate; di rimbatto vie più tetre scene di asprissime e tiranniche leggi, di che la mente inorridita rifugge: guardava dal naviglio sulle acque il re con Acton e Nelson ripensando forse ai gemiti e agli ultimi accenti di Piazza Mercato.
Nelle provincie si spedivano intanto i così detti Visitatori (2) a scopo di scovrire quanti partigiani di parte repubblicana avesser potuto trovarsi, nelle provincie e specialmente in S.Marco, se non si ebbero condanne, non fu già che i Visitatori fossero volti a senso di giustizia o di clemenza, ma perché i capi non si rinvennero, né materia punibile fu ricercata nei gregarii. Pur non di meno si attribuí questo alla venuta di M[onsigno]r Ludovici, uno dei Visitatori, il quale essendo uomo dabbene e clemente, ebbe riguardo di un gregge che si trovava privo di pastore e della sede scoperta.
Caduta la repubblica parve che tutto finisse, ma, come la semenza sotterra, quei germi aspettavano la maturezza. Parea che nel paese regnasse una quiete stanca e il cupo passo degli eserciti che si facevan gire pei nostri luoghi, debol sostegno di più debol tirannide, si sentivano incedere per nascondere i gemiti ed il tonfo [tanfo?] dei cadaveri nelle tombe. Sopravvanzano invero processi di sangue nella capitale che inorridivano il mondo civile, poiché Ferdinando improvvidamente eccedette in tirannide. Se non che a castigo di ricapo ebbe a sperimentare maligno e terribile il ritorno della fortuna, nel 23 Gennaio del 1806, sperando nella mutabilità del tempo, iva a scampo della vita a trovar ricovero nuovamente in Sicilia. E sconfitto Dumas e l'esercito di 16 mila uomini mandati dalla regina che combattè valorosamente contro i francesi nelle aspre strette di Campotenese, carolina con le figlie, l'11 Febbraio di quell'anno rifece eziandio il cammino dell'esilio.
Per lo che il 14 dello stesso mese ed anno 1806 le prime squadre francesi giunsero alle porte di Napoli, onde comincia per noi quel decennio nel quale ci incontriamo in Giuseppe Bonaparte ed in Gioacchino Murat.
Non è mio compito dire dei miglioramenti civili dei due regni ai quali ebbe a partecipare la città nostra, la quale sotto quel dominio addivenne centro delle operazioni militari distrettuali, miglioramenti buoni e buone ordinanze, dicono gli storici, ma eseguiti con dispotica violenza.
Gli errori commessi nella terribile repressione del brigantaggio in questo periodo di tempo, errori che gettarono lo spavento nella città nostra , vengono personificati in Manhes Carlo Antonio di Aurillac (3)  soldato di tutte le guerre della rivoluzione. In quel tempo la condizione delle nostre sciagurate provincie era insopportabile; non spuntava giorno che la nuova di qualche atroce delitto o di qualche incendio non giungeva a funestare i paesi nostri. Manhes cominciò dal pubblicare i suoi terribili editti; dall'arrestare i parenti dei briganti e i loro manutengoli, parola di spaventoso arbitrio; guai a chi porgesse aiuto ai trasgressori delle leggi; guai a chi contravvenisse ai suoi editti emanati o non rivelasse costoro. Il nome di Manhes in proverbiale esecrazione; ma così sorpassò tutte le speranze, che in lui s'erano formate. Pure l'Orleffe, il Botta ed altri lo riconoscono inesorabile, ma incorrotto e ossequiente alle forme della giustizia. Alessandro Dumas parla dei grandi effetti dell'opera di lui; il Colletta esagera anche di più ed è forza credere che non sia veritiero una volta che dallo stesso Manhes nel 1835 nel Moniteur di Francia venne smentito.
L'opera di Manhes, dopo cinquantaquattro anni circa, imitò Fumel nel circondario di S. Marco. Lieve apparenza di colpa, pretese confessioni d'innocenti, strappate su promesse d'impunità, sovente facevan fallire il segno, od eccedere in rigore. Né difesa, né procedura giuridica ammetteva, onde più d'un innocente andò travolto in quella fiera repressione, onde qui si tremava a verga. Non pertanto gran servigio, tra misure spaventevoli rese alla nostra provincia e al nostro paese. Un ricorso da qui diede occasione ad un'interpellanza dell'onorevole Deputato or Senatore Miceli, al quale si rircorse, interruppe l'opera illegale del Fumel [in verità il Comune di San Marco gli tributò meriti speciali], perchè in governo libero, retto ad istituzioni parlamentari, l'incarico dato a quel colonnello era arbitrario ed odioso. Pertanto fu subito richiamato dasl Ministro Rattazzi; onde in S. Marco, dove da Fumel erano disegnate molte vittime, colpevoli solo non di altro che d'aver dato da mangiare a qualche latitante per potere stare sicuri nelle proprie masserie, sciolti dal gelo della paura, respirarono.
Nel tempo che Manhes era inteso ad estirpare la mala pianta del brigantaggio, in Cervicati, paesello vicino a S. Marco, formato da quelle colonie albanesi che verso il XIV o XV secolo che dopo la caduta di Croja in Albania, condotte da Skanderbech Castrioto, ricoveraronsi in Italia, la schiavitù turchesca fuggendo; avvenne, caso assai doloroso; del quale il mio paese si per ragione di vicinanza e si per ragione dei vincoli parentali, ond'era stretto alle infelici vittime, e si per l'imminenza di probabili danni, ebbe a considerarlo come lutto cittadino.
Nel di 9 marzo 1701(?!) [1801] da certo Mungo fu ucciso un tal Nicola Bruno da Dipignano venticinquenne circa, il quale faceva parte della masnada Golia, e soleva usare di notte tempo presso alcuni parenti od amici in Cervicati, eludendo i bandi del terribile Francese [nel 1801 il regno era ancora in mano ai Borbone]. Il cadavere del brigante a ludibrio e a vituperio portossi attorno alle pubbliche vie cantando a strapazza, e quasi fosse spento in quelli del tutto il senso morale, si fé quel cadavere segno a vili contumelie e a disonesti oltraggi, né mancò nulla perché l'indegno baccano e l'iniqua gazzarra offrissero spettacolo da selvaggi.
Del malo offizio fatto contro del Bruno, i compagni dopo sette anni ne fecero aspra vendetta, vendetta calabrese, vendetta calabrese!
Nel 19 Febbraio del 1808 in Casello, contrada in territorio di S.Marco; ed era tempo di Carnevale, Golia una coi compagni Cecce Perri, Frogo Rosarino, Mele e Ialluzzo superstiti delle orde sfasciate del cardinal Ruffo, che dopo la pace di Amiens, 27 Marzo 1802 trescavano in tutto il distretto di Cosenza, travestiti con uniformi francesi ed edotti da spie appressarono una mano di Giovani cacciatori da Cervicati, che incanti in buona fede credettero al mentito esser di quelli. Da cotestoro, cioè dai finti soldati furono insidiosamente come per cacciare condotti nella sovradetta contrada Casello e quivi proditoriamente legati, di tutti, quei malfattori fecero efferata e sanguinosa carneficina, facendoli morire fra strazii, tormenti indicibili e vigliacche sevizie. Erano quindici (4)  e quasi tutti stretti per legami parentali; ad un solo di essi che trovavasi a poca distanza dei compagni, il dubbio che l'assalse, fè tosto mutar via e fe scampare la morte. Il figlio di costui tuttavia vivente mi fè testimonianza del lacrimabile evento. Ad un altro dei malcapitati giovani, fosse antica amicizia fosse senso ancor non estinto di pietà, uno di quei tristi disse a voce bassa: o resta indietro, o vattene!
Dopo ce ne andremo tutti, rispose il mal'accorto, e tutti traditi e massacrati se ne andarono all'altro mondo.
Chi in un giorno festivo, dopo la sanguinosa ecatombe di quegl'infelici mutilati e seppelliti dagli stessi parenti nel luogo stesso dell'infame supplizio, fosse entrato nella chiesa matrice del povero paesello,così fieramente dalla sventura provato, non avrebbe scorto una donna sola, che non vestisse a duolo.
Fu allora che Sammarchesi e Cervicatesi, tutti uomini in fama di cacciatori espertissimi, fra cui era mio padre, riunitisi in ischiera fratellevole, fecero molte spedizioni nell'intento di vendicare l'orrendo oltraggio di quei masnadieri sanguinari. In una di tali spedizioni, all'agguato due di quegli scellerati, Gennaro ed Oronzio di Firmo, questi da un Cervicatese, quello da un Sammarchese freddati. I due teschi degli estinti, io ero fanciullo (?) [il Cristofaro era nato nel 1827!], furono messi su due corni di un altare di S. Marco Evangelista, non ancora aperta al culto, e li ho avanti agli occhi, e parmi di vederli con capelli arruffati e sanguinanti, orribilmente brutti, formanti lo spavento di noi ragazzi, cui parea che l'ombra l'inseguisse. Quali tristi tempi eran quelli per queste nostre infelici contrade! Fra quali fosche e luttuose immagini scorse la gioia incosciente della mia fanciullezza!
Nel tempo dell'invasione francese, o vogliam dire conquista, come si suole in governi nuovi, molte brigate di soldati percorrevano le provincie del regno occupato, si per spegnere qualche reliquia di brigantaggio, si per conoscere lo spirito pubblico, si per far vedere ai popoli la forza su di cui il nuovo governo riposi, e si per assicurare gli animi di difesa.
Ora investigando io tra quelle straniere incursioni, mi occorrono turpi memorie, che dovrebbero rimanere nell'oblio per onore dell'umanità. Pur m'è forza di non tacere. Non foss'altro l'obbligo degli alloggi continui era causa di scontentezza da parte del popolo e di soprusi sconvenienti per riprovevoli esigenze da parte degli alloggiati.
Un Andrea Amodei appartenente ad onoranda famiglia sammarchese (5)  fattosi reo di grave omicidio, spretatosi, col nascondersi ed in errare in luoghi lontani, sfuggì al rigore di giustizia, e stridendo in esso odio e vendetta per ruggine di privati rancori, trovò la impunità presso Manhes, in quel tempo dimorante in Cosenza, il quale fu facile ad iscriverlo nella Legione calabrese.
Venuto in conoscenza che il generale Masseno si sarebbe recato col comando della brigata in S.Marco, gli fu facile trovar posto nei ruoli dei soldati francesi, facendo valere per titoli di merito i servizi prestati sotto Manhes nella repressione del brigantaggio. (6)
Lungo la via percorsa dai Francesi per giungere a S. Marco, l'Amodei credette giunto il tempo di porre in esecuzione le sue implacabili ire. Facendosi, cavalcando vicino al Generale, col pretesto di fargli delle comunicazioni, cominciò a dirgli essere la città di S. Marco ricettacolo di parte borbonica, il primo anello della cui catena metteva capo alla famiglia Valentoni, ch'era vasta associazione antifrancese. Il generale restò soprapensiero e l'Amodei interpretato quel silenzio al sospetto, che il suo dire avesse fatto breccia nel cuore di Massena, insistette dicendo: È mestieri soffocare i sentimenti avversi contro Francia col ferro e col fuoco, affinché quelli di parte francese prendano coraggio e gli avversari rimangano depressi e spaventati. E siccome quel discorso tenevasi proprio mentre passavasi sotto un casino di Valentoni, Maiolungo, perché soggiunse questo novello bicada, che, per un privato rancore intendeva portar rovina alla patria sua, perché, Generale, non si comincia da qui a far valere la nostra ragione, dando il fuoco a questa casina, chè proprietà di nemici nostri? e distruggendo queste piantagioni? Ma quel gran guerriero forse sentì orrore di un cittadino, che in luogo di lodare e raccomandare la patria sua, la esponeva a gravi pericoli, non uso a servire di strumento alle bieche arte dei malvagi, entrò in sospetto, tanto più che era in conoscenza che un di casa Valentoni militava negli eserciti francesi, senza risponder nulla, spronò alla città. Pur il Generale non del tutto deponendo i sospetti intorno allo spirito pubblico entrò in città provveduto a guerra, e ordinò che le schiere dei suoi soldati a cominciare dalla contrada detta Le Macchie al di sotto del paese fossero ordinate così che salendo altre schiere. formassero un semicerchio fino alla Conicella, consegnate tutte come in pie' di guerra, onde S. Marco da parte di Nord e da parte di Est pareva totalmente bloccato e nessuno poteva rompere le file, attraversandole.
Intanto il Generale, prima di partirsi da Cosenza aveva per mezzo di alto personaggio ricevuto invito dal Comandante dei militi Ignazio Valentoni, ed ivi quindi andò difilato ad ospitare. Ben presto il Generale ebbe a rassicurarsi e ritenere bugiarde e interessate le parole dell'Amodei che si improvvidamente si era dato a conoscere. E fu del tutto disingannato quando, Michele Valentoni, fratello di Ignazio, in buon francese, delle private controversie e della privata biografia del prete Amodei, cose non punto disdette dai notevoli cittadini, quivi convenuti, fece consapevole il Generale; e quando ricordò esser tradizionale in casa Valentoni l'onore e la lealtà delle armi e la devozione alle case regnanti. Un Giuseppe Valentoni, aggiunse, vissuto nel 1690 circa fu capitano al servizio di Ferdinando il cattolico e si distinse nelle guerre del tempo; ed oggi com'è in conoscenza del generale un Luigi Valentoni col gradoo di Brigadiere generale, ha combattuto nell'assedio di Tolone. Non gli tacque essersi uccisi due briganti dai militi comandati da Ignazio, fratello di Lui. In tal caso esclamò Messena, siamo tra amici, ed ho fatto bene a scegliere la casa di un mio commilitone.
Indi fattosi chiamare l'Amodei, e v'è ancora chi ricorda essersi chiamato di scolta in scolta, presentatosi al Generale, tu sei indegno, gli disse, indossare l'uniforme francese, poiché l'hai disonorata; la deporrai subito una col grado comprato col delitto: ora conosco l'esser tuo, prete scellerato! Francia invitta non abbisogna di traditori e di furfanti, perché le sue aquile liberatrici spieghino il volo tra i popoli! E concitato per generoso sdegno in così dire, gli strappò le spalline, gli scinse la spada e come a malfattore conviensi scacciollo via, e diè subito ordini che si togliesse quella specie di ossidione della città e vi rientrassero tutti, come in città amica.
Fin qui ingrata storia di turpe caso; or mi dia venia il lettore se vicenda di particolare interesse narri.
Mio padre Michele era un incorregibile cacciatore; una sera ritiratosi da caccia a mezzo ottobre, trovò, né era la prima volta, che un ufficiale francese in alloggio, occupava la sua propria stanza in casa sua. Sì per la stanchezza, Sì pel fastidio del traslocarsi in altro luogo, Sì per la frequenza in quel tempo degli alloggiamenti, non seppe trattenersi dal borbottare, avverso com'era a quella occupazione che va contraddistinta col nome di occupazione militare, inconsultamente non che addimostrare il suo malcontento, ma eziandio principii avversi a quello stato di cose. L'ufficiale, cui mio padre forse riteneva ignaro l'italiano, capì tutto e tacque. Di buon mattino riferì tutto al Generale che ne ordinò l'arresto e che in men di ventiquattr'ore ad esempio venisse passato per le armi. Allora il sindaco di quel tempo Giuseppe Fera (7) una con molti cittadini, a cui doleva il caso sventurato, fecero del loro per distogliere l'enorme sciagura del capo di mio padre, adducendo a scusa di lui, ch'ei se potesse ritenersi come sospetto, non sarebbe stato elevato tra i Militi al grado di Tenente; non avrebbe solo e di notte messo in pericolo la sua vita per andar contro a briganti, per lo che meritò lettera di plauso del generale Messena. Per queste ragioni ed altre che predicavansi da quelli, che lor buoni uffici offrivano a Regnier a favore di mio padre, non valsero a placare l'ira di quello, e a stornar la tempesta sul capo di mio padre addensata. Erasi da tutti sul disperato, quando la signora Gaetana Filosa d'Aprigliano moglie di Ignazio Valentoni, del quale come ho detto il generale era ospite (misteriosa vicenda di lontani casi! Una Filosa salvava la vita al futuro suocero di un pronipote di lei, Francesco Filosa, mio cognato) prese seco per mano il suo unico maschietto Gasparino, e, gettatasi in ginocchio a pie' del terribile francese, che aveva fatto consegna di tutta la truppa, domandò che in grazia di lei e di quel fanciullo innocente, facesse grazia al Cristofaro, che la letizia d'aver tra loro uno dei grandi generali del grand'esercito di Francia, non venisse eclissata con uno spettacolo di sangue, che le parole di quel disgraziato, anziché ad opinioni di partito preso si dovessero attribuire ad inconsideratezza giovanile conoscersi da loro esser piuttosto partigiano della Francia che no. All'atto o suggerito o da sentimenti umanità e di amicizia derivato, il cavalleresco Generale francese, non smentendo la gentilezza degli antichi cavalieri di Francia, non che permettere che parlasse quella Signora in ginocchio, non si fe' due volte pregare da una donna; ma levandosi diritto in men che il facesse la nobil Signora, e baciando e accarezzando il piccolo Gasparino, concesse la chiesta grazia, volle che il tutto tornasse nello stato di quiete, fra l'esultanza di tutto il popolo sammarchese, sì per la singolarità del caso, sì per i rami delle molte parentele cui mio padre era legato, e sì perché mio padre era presso tutti in grande amore per la fama illibata di onesto cittadino.
Era stato messo in Cappella nella Chiesa di S.Giovanni Battista, dove contava le poche ore che gli avanzavano coi palpčiti anelanti del cuore, pensando al povero padre Giuseppe alla povera madre, ai fratelli germani Domenico e Antonio, ancora fanciullo ed alla sorella M.a Francesca ed agli altri oggetti cari della vita; quando in luogo del lugubre avviso, che l'ora di morte era suonata, quando in luogo del lugubre avviso, che l'ora di morte era suonata, gli fu recato l'annunzio della grazia in quella stessa Chiesa. Circondato, appena se ne sparse la nuova, da una folla enorme, per l'allegrezza non c'era alcuno che non versasse lagrime. Giovine ancora com'era, in quella sola notte fu condotto a casa coi capelli brizzolati a neve.
 
Scomposta adombra quella faccia mesta
Bianca la chiome in parte e in parte nera
Che solo in una notte atra e funesta
Rizzata e alquanto incanutita s'era:
Orrenda è la canizie in giovin testa
Come il gel sulla pianta a primavera
Degl'Incogniti, Leggenda di P.Giannone
Capitolo IV parte I

 


 

(1) Vol. 2 libr.III cap.19

(2) I Commissari regi col nome di Visitatori nelle provincie dopo la caduta degli ordini repubblicani, avevano l'ufficio di punire i rei di stato, tenendo in mira di purgare il regno dei nemici dell'altare e del trono. Furono Visitatore il Cav.Ferrante, il Marchese Valva, il Vescovo Ludovisi, i Magistrati Crescenzo de Marco, Vincenzo Marrano, Vincenzo Jorio. Ad ogni visitatore si dava un compagno nei giudizii, sicChé tribunale di due giudici pronunziava della vita, della libertà, dei beni di numerosissimo popolo.
(Storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta - Vol. 1 lib. V - Regno di Ferdinando IV)

(3) Dumas: I Cento giorni di brigantaggio. Libro II. Seconda reazione 1806-1810.

(4) Luigi Maria Greco (Ann. di Calabria Cit. dal 1806 al 1811 Vol.1 pag.22) accenna ad un tal fatto; qua e là egli dice, vagava Golia ... e il 19 febbraio traveste egli i suoi da soldati francesi, che creduti tali dagli incauti, appressano, circondano e imprigionano quindici gentiluomini da Cervicati a cacciare. Tutti tra loro congiunti e sciagurati del pari, vengono morti indi a poco tra più tormenti in Casello, contrada presso S.Marco, orrendamente memorabile per quel barbaro caso. Ecco i nomi degli uccisi che riempirono di lutto tutto Cervicati: Andrea Marchianò, Pasquale Rebecchi, Pasquale Marchianò, Bernardino Pirro, Nicola Giovanni Cappellano, Saverio Mungo, Raffaele Mungo, Angiolo Aceto, Carlo Aceto, Anello Vennere, Francesco Capalbo, Andrea Mungo, Pasquale di Giovanni, Carlo Bisignano.

(5) La famiglia Amodei, in quella che una coi fuoriusciti di Genova di lor parte erravano esuli, di parte ghibellina, invocando aiuti in diversi luoghi d'Italia, dopo gli eroici fatti del Vespro Siciliano, seguirono gli Aragonesi in Sicilia; dove, secondo il Neocastro, il Tomaselli, il Malaspina, il Maurolico ed altri moderni, occuparono cospicui uffizii.Nel ramo di S. Marco è un gennaro Amodei, che una col P. Ripa nel 1705 fece udire nell'Asia la mite parola del Verbo, come avrò a dire nel seguito di queste memorie; v'è pure un Pasquale Amodei ch'ebbe tanta parte nelle cose del 1860; e serbo anche per lui una pagina; ma questo signor Andrea visse dimenticato dall'onoranda famiglia, a cui apparteneva doverlo oggi ricordare, come uomo scaduto ad infamia. Iscritto dal Manhes col grado di Capitano della Legione Calabrese, una con un altro spretato certo Durante, anche capitano, catturarono in una grotta del Moccone presso Acri il brigante Cecco Perri e per pronto ordine del Generale, a suon di tromba lo frustarono a morte.

(6) Luigi M.a Greco negli Annali di calabria Citra, di sopra citato, così racconta la cattura di Perri fatta dai legionarii.
Poco dopo Perri, tradito da un Facciale, suo compagno, viene sopreso dentro una grotta spaventevole di Moccone in contrada Cicita, presso Acri da Legionarii, condotti da Durante e Amodei capitani. Era il primo di Luzzi e di S. Marco il secondo, entrambi ecclesiatici, e, triste mutamento, fattisi persecutori animosi, truci di bande paesane. /Annali della Calabria Citeriore dal 1806 al 1811. Vol. 2 lib.XVII pag.564)
(7) I Fera erano parenti di mio zio A[ntonio] Cristofaro

INDICE GENERALE

INDICE CRONISTORIA

A cura di Paolo Chiaselotti