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Questa pagina fa parte del sito "L'Ottocento dietro l'angolo"  (www.sanmarcoargentano.it/ottocento/index.htm) di Paolo Chiaselotti

DALLA CRONISTORIA DI SAN MARCO ARGENTANO
DI SALVATORE CRISTOFARO

PARTE III - TEMPI MODERNI

Cap. II
Cap. III
Cap. IV / 1
Cap. IV / 2
Cap. V Cap. VI
Cap. VII /1
Cap. VII /2
Cap. VIII
Cap. IX

Capitolo V

Insurrezione del 1848

Erasi nello scorcio del 1846, e venuti i popoli in conoscenza di tutti gli avvenimenti, che dall'elezione di Pio IX in poi si compivano in Roma; dell'amnistia del 6 luglio del 46, delle riforme, delle dimostrazioni, e degl'inni onde la città dì e notte risonava in lode del gran pontefice (1) e delle speranze che si compivano a pro dell'Italia (2); gli animi di tutti, dimenticando i passati lutti, aspiranti a schietta gioia, e parve a tutti, che
 
Senza i troni scuotere
Senza destar le spade
Con ala placidissima
Su l'itale contrade
Della paterna glora
Ritorneranno i dì

E sotto quell'eruzione di applausi e di gioie parvero una stonatura i delirii politici che v'immischiavano gl'intemperanti affiliati della Giovine Italia, onde in napoli cominciava a sentirsi quel sordo rumoreggiar di tumulti, come quello che precede il rebore del nativo Vesuvio. L'Italia era svegliata, ma non seppe mantenersi, secondo il programma giobertiano ed aspettava tutto dai principi e precipitò tutto con la violenza, e l'amarezza di altri gravi dolori si dovette assaggiare.
Era il 1847, e, sebbene l'importazione dei libri dell'Italia settentrionale era difficile e costosa, pur ciò nondimeno, in S.Marco ne provenivano d'ogni parte. Si leggevano con avidità il Primato morale e civile degll'Italiani di V.Gioberti, libro che fu il programma della rivoluzione del 1848. Le speranze d'Italia di cesare Balbo; e tutte le produzioni della Italia superiore: I lombardi alla prima Crociata del Grossi, l'Ildegonda, l'Ulrico e Lidia dello stesso; l'Edmenengardo di Prati, la Pia del Sostini, la Nella del Bargoni, l'Ida del carcano e l'Algiso del Cantù Le quali letture facean pensare all'Italia, parlare dell'Italia, ed ai fati maturi d'Italia volger affetti, pensieri e speranze, ed allestirsi e prepararsi ai desiderati avvenimenti, e i nuovi poeti mandavano nuovi suoni dal fondo del loro animo.
Nè meno desiderati e letti erano i lavori dei nostri pieti calabri: il Milosao e la Serafina di Girolamo De Rada, gli Incogniti e la Lauretta di Pietro Giannone, l'Abate Gioacchino di Giuseppe Campagna, l'Errico di Domenico Mauro, la Sambucina e il valentino di V.Padula, l'Anacoreta di V.Selvaggi, il Brigante di B.Miraglia, l'anselmo e Sofia di V.Gallo Arcuri. E l'adoperarsi a scopo di patrio amore intorno a questi nostri poeti, che come diceva il mio Iulia, formano una ghirlanda di Cantori Calabri, aventi spirito, carattere, credenze e passioni della vecchia eroica Calabria; rinfocolava le ardenti speranze della parte colta, da cui, quasi irradiamento di raggi diffondevasi nel popolo.
E in mezzo alla frenesia, a cui salivano gioie e speranze, venne in S.Marco il poeta Biagio Miraglia di Strongoli, che girava la Calabria non per improvvisare che per tutt'altro scopo. A tutte le notizie, onde qui si era in conoscenza aggiunse notizie più precise, alle speranze, speranze più rosee. Nessun in fuora della parte liberale, intravide che quel bardo pellegrino portava seco le aspirazioni della Giovine Italia celata, e che quel canto armonioso di lui era il canto dell'augello augurale, che tra i mandorli in fiore, e che tra lo smalto di verdura dei prati ha voci di annunzio di primavere.
E i fiori della primavera non tardarono ad apparire. Nel 27 gennaio fu concessa da Ferdinando II una costituzione; (3) amnistie e riforme; ma tutto questo ben di Dio per l'opera dei vecchi settarii, che non avevano fiducia alcuna nel principe, fu accolto con gioia infinita sí, ma mista a diffidenza: la stampa politica assunse un contegno provocatore, scorretto che oltre non credere la sincerità del re, rievocava i ricordi del '99, del 20 e di quelli più recenti del 44 e del 47, non dando tregua a ministri, ingiuriava con termini plateali, tollerati solo dalla sconsigliata licenza, Re e famiglia reale.
Interminabili le feste, gli evviva a Ferdinando II, a Pio IX, alla Costituzione. Giacomo Greco, l'antico cospiratore di tre rivoluzioni, arringando al popolo da un'alta loggia, diede il volo a colombi ornati di nastri tricolori; (4) e ad ogni colombo che volava, le grida, e gli applausi salivano alle stelle. Ogni petto ornato di coccarda, ogni cappello di nastri; e dapertutto bandiere, orifiamme e canzoni. (5)
La Costituzione a sistema francese aver dovea la Guardia Nazionale cioè la Nazione ornata a difesa delle pubbliche libertà Il capo della guardia nazionale di Cosenza avea il comando di tutte le guardie della provincia. In S.Marco si addivenne alla formazione di essa, e furono eletti a capo Vincenzo La Regina, giovine caldeggiatore di libertà, a tenenti quel Felice Talarico, che nel 1820 avea guidato la legione sammarchese per alla volta di Napoli, e a secondo tenente Luigi Conti. Nella stessa guisa addivenutori alle indette elezioni politiche, riuscirono eletti a deputati pel parlamento napoletano Domenico Mauro da S.Demetrio con maggioranza di voti assoluta, Avv. Cesare Marini, Avv. Tommaso Ortale, Mauro da Mangone e Giovanni Mosciaro da S.Benedetto Ullano; eletti col collegio plurinominale. Si vollero azioni di grazia e il R.do Decano De Ambrosiis, eletto del capitolo, dopo la morte di M[onsigno]r Marsico, a Vicario Capitolare, cantò in Chiesa l'inno ambrosiano, e Vincenzo Padula disse discorso patriottico. Negli occhi di tutti, che fidenti intervennero, balenava il raggio di una gioia sicura. Ed oh! come presto si ecclissò quel raggio non so ben dire, se pel fedifrago principe, o per le smodate trasmodanze del popolo, che si appressò all'orgia, dove schiamazzava la frenetica licenza.
Nelle provincie il passaggio dal vecchio al nuovo regime, come suole avvenire fra popoli, non ancora educati a civiltà, fu accompagnato da tumulti e disordini, poichè le sette massoneria e carboneria eran quelle, che avevan formato da mezzo secolo in qua l'educazione politica del popolo. Eguaglianza fra tutti, guerra ai tiranni; insomma reminiscenze sconclusionate di Grecia e Roma, nessuna fiducia nei Borboni e nei re in generale, ecco gli articoli settarii.
In San Marco i torbidi cominciarono tra la gazzarra dei canti; e da prima fu pretesto la spartizione dei terreni demaniali; eterna questione di tutte le rivoluzioni e fornite di tumultuarie riunioni del popolo che eccitavasi a resistenza; indi la libertà degenerata in licenza. Da mane a sera di grida incomposte si assordavano le strade, e ora ad una famiglia, ora un'altra davansi gl'ingiuriosi epiteti di usurpatori, non mancando le arti bieche dei tristi, che per vecchi rancori contro detentori di demanii movevano insinuazioni alle credule turbe incoscienti. La illusione, che mediante lo spartimento dei terreni comunali, si sarebbe saliti in ricchezze governava oramai le menti delle moltitudini.
I vecchi prudenti si mostravano contrarii alla quotizzazione dei terreni comunali, sì perché, mancando nei nostri luoghi associazioni agricole, e non potendo i quotisti migliorare ciascuna quota, ne sarebbe avvenuta con tutte le restrizioni della legge, iattura di grave sperpero. E così avvenne; la maggior parte dei quotisti, non potendo né fare miglioramenti, né pagare l'imposto canone, si dovette ribassare detto canone, o venderono, o rinunciarono o abbandonarono del tutte le quote, che si dovettero cedere ad altri a scapito del Comune. Si aggiunga a tutto questo che pei dissodamenti si ebbero straripamento di fiumi e torrenti cresciuti; danni senza fine; onde gli eventi giustificarono le opinioni dei vecchi.
Poichè diverse commissioni si delegarono all'autorità tutrice della provincia, si ordinò la bramata divisione e quotizzazione, e per tal uopo fu mandato da quivi l'ottimo ingegnere e patriota Luigi Dardis, cui non potè rimproverarsi difetto di equità e di modi conciliativi.
Frattanto in quel che si effettuava la spartizione dei fondi promiscui del comune, il popolo non quetò ma irruppe a libidine di denaro contro pacifici cittadini. Si sparse la voce da maligni che vistosa somma fosse pervenuta a Francesco De Ambrosiis, Decano in Cattedrale e Vicario capitolare, dott. fisico e patriota di fede antica e cittadino, dalla cui famigli, per ver dire, il paese copia di beneficii d'ogni guisa aveva ricevuto.
Nella carestia del 1820 il fratello di lui Raffaele, Vicario Capitolare dopo la morte di M[onsigno]r Mazzei, mercè la costruzione del nuovo seminario, diè lavoro a disoccupati, provvide ad ineluttabili miserie, e alleviò i tristi effetti della imperante penuria con la gratuita dispensa di grani. Egli stesso Francesco in qualità di medico a quanti mali e sofferenze non apportò conforto? Si volle far credere che la somma ricevuta dovesse distribuirsi al popolo; falsa la voce di quella somma del tutto, ma i tristi se ne avvalsero, e fu scintillo che accese grave incendio. Una caterva di di popolo ammutinato, fattosi intorno all'abitazione di costui, con maligno intento d'insana provocazione, tra schiamazzi di grida invereconde, si cominciò a dar delle accette al portone a scopo di scassinarlo. Se non che sì per lo intervento del Circolo politico, di già costituitosi in S.Marco, come dirò, e sì per quello della Guardia nazionale, si ristabilì l'ordine e la quiete.
Ma forse sì per la commozione e paura, come per la dispiacenza della immeritata sconoscenza, l'antico patriota, il riverito gran Maestro della Vendita sammarchese, quegli che poco tempo prima era stato pronto a cantar il Tedeum, si ebbe a morir di cordoglio. Ora legge lassù il mistero del dolore, che il giudice esterno manda quaggiù, abbeverando i suoi giusti dell'amaro veleno delle ingratitudini che offrono loro i malvagi.
Oggi che, dopo tant'anni, registro una vergogna cittadina del mio paese natale, tornami alla memoria quella sera, che per onore dell'umanità, dovrebbe cadere nell'oblio; quando in Cosenza nell'ottobre, se non erro, del 1860, Giuseppe Vercillo venerando per canizie, veneranbdo per meriti incontrastabili, come dice di lui Lorenzo Greco, sol per bieca intolleranza di opinioni, che le idee del tempo non blandivano; fu portato in carozza chiusa per le vie di Cosenza prigioniero! Quel giorno fu uno dei saturnali della rivoluzione, ma fu vergogna cittadina.
Quand'io intesi le grida e il clamore, che si facea sulla strada per dove passava, curvai la fronte sotto il peso dei tristi pensieri tra le palme, e piansi.
Il Vercillo era il modello del ceto ieratico; era dotto, e alla dottrina univa la pietà. Oltre la cronologia lodata dal Thiers fin dal 1840, oltre le molte operette, a cui diede opera, lavorò con lungo amore intorno ad un'opera filosofica. Forte e poderoso pensatore, è sceso nella tomba, bevendo il calice delle amarezze, somministratogli d'amici ed alunni sconoscenti che non ebbero il pudore di carcare le spine su quel fronte solcato da tanti anni di studio! Io stigmatizzo con parole di fuoco sì gl'irriverenti miei conterranei che procurarono la morte al De Ambrosis, e sì a coloro che contristarono gli ultimi giorni di un grande uomo, che sarà in benedizione tra i Calabresi, di Giuseppe Vercillo, esempio, quasi un Rosmini, dell'italo Clero.
Un altro brutto e losco abuso in quel tempo stesso si perpetrò da alcuni del mio paese, che sarebbe meglio rimanesse nell'oblio, se ufficio di cronista e imparzialità di storiografo lo consentisse; se non che nasconderò con prudente silenzio i nomi perché il mio scritto non segni alcuno ad infamia. Molti, avvalendosi dello intorbidamento dei tempi e della altrui debolezza sorpresero la buona fede d'alcuni, estorquendo, come per ricatto, somme di denaro o di grano. Alcune signore in fama di doviziose, furono anche soggette al prepotente ricatto di questi galantuomini perchè indifese. Vendevano protezione e sicurezza, e per questo, come la legge fosse abrogata.
L'infame ricatto durò fino alla costituzione del Circolo politico, come ordinossi in tutto il Regno, ad oggetto di corrispondersi tutti quelli di parte liberale, e tener vivo l'obbietto della rivoluzione, salvaguardare la libertà della patria, e giovare al bisogno, all'ordine pubblico, formando così una massa compatta di libertà, intorno a cui i migliori cittadini potessero raggrupparsi. I socii del circolo sammarchese furono Francesco e Alfonso Amodei, Salvatore e Giacomo Campolongo, Angelo, Carlo e Baldassarre Selvaggi, i due popolari Salvatore Scarpello e Gennaro Fiorillo e gl'ingegneri Sarpi Francesco e Dardis Luigi. Si volle un Presidente, ed il risultato di votazione segreta fu favorevole allo scrittore di queste memorie [Salvatore Cristofaro (1827)], come a V.Presidente al Sig. Campolongo Salvatore, come a Segretario a Baldassarre Selvaggi, a V.Segretario a Francesco Amodei, a Tesoriere ad Angelo Selvaggi. Le sedute ordinarie, una la settimana, le straordinarie, a seconda del bisogno; la convocazione del Presidente; la contribuzione, mezza lira al mese, da servire per corriere e spese di scrittoio; cura precipua oltre lo scopo politico, ingegnarsi a prender ogni mezzo, perché l'ordine non venisse turbato e il popolo non trasmodasse. Dei grandi servigi, resi al paese, a cominciare dai torbidi contro il De Ambrosiis, da cotesto Circolo, dirassi in seguito, del che parrà che lungi di fare i politicanti, rappresentò un elemento di moralità e di sicurezza, di che la maggior parte dei gentiluomini, tuttora viventi, se n'ebbero a lodare.
Inanto parea che il mondo andasse in fiamme; le notizie delle cinque giornate di Milano, delle insurrezioni di Venezia di Vienna e di Berlino e la rivoluzione di parigi affrettarono il prorompere in Italia di nuove esorbitanze. In nome della italianità re Carlo Alberto dichiara la guerra all'Austria, per scacciarla dalle occupate provincie italiane, e Cristina di Belgioioso venne in Napoli per raccogliere volontari. Due sammarchesi, ritrovantisi in Napoli, Francesco Maria Roberti e Giuseppe La Regina, dei quali dirò appresso, nel 19 marzo 1848 seguirono la Belgioioso nella Lombardia. La partenza dei Crociati italiani fu accompagnata dal canto dei poeti (6); e dei soldati che mandava Ferdinando II a prender parte alla guerra dell'indipendenza, affidando quel corpo di spedizione a Guglielmo Pepe. I Deputati eletti dal Parlamento napoletano intanto partirono per Napoli, accompagnati da circa venti giovani armati e dai vecchi settarii del '20, i quali, a dir vero, non nutrivano le più pacifiche e sincere idee del mondo.
Codesti Calabresi non furono piccola cagione dei fatti sanguinosi del 15 maggio.
Il 15 maggio fu l'ultima conseguenza necessaria di tutta la esplosione delle dimostrazioni, che per quattro mesi circa, da 27 gennaio, si fecero. Pochi pazzi, dico il vero, perderono ogni cosa, e poi per quale idea si venne a tanto? Pel giuramento se si dovesse o no svolgere lo Statuto. O avvocati, anzi paglietti, esclama su tal proposito il Settembrini, voi meritate la servitù. (7);
All'annunzio dei fatti del 15 maggio, o 17 in Cosenza, il 21 in S.Marco, si manifestò subito viva agitazione e come nel Capoluogo si costituì immediatamente Comitato di salute pubblica in S. Marco, venuto per l'uopo certo Stinca da Cosenza, ordinossi che tutte le autorità si rimanessero al proprio posto, perchè l'ordine non venisse turbato.
Ma quelli che comandavano e vegliavano al mantenimento dell'ordine erano i Comitati. L'Intendente, intanto cui non rimaneva più né forza né prestigio, si dimise; il battaglione di Pianell fu richiamato in Napoli, onde in provincia non rimanesse ombra di resistenza. In Cosenza alla venuta di Giuseppe Ricciardi formossi altro Comitato a difesa, e il 30 maggio questo Comitato proclamò la insurrezione.
 
Capitolo VI

 

(1) Ponete o bimbi le ginocchia al suolo
Pregate il ciel che vi conservi Pio,
Ei pose fine dell'Italia al duolo,
A' suoi tiranni fe' scontare il fio;
Fece di molte genti un popol solo
Una sola famiglia un sol desio
Or se la patria vi levò contenta,
Viva Pio IX, è lui, che l'ha redenta.
Se tanta luce sovra lei sia spande
Viva Pio IX, è lui che la fa grande,
se un giorno spazzerà le sue ritorte
Viva colui che la fe' unita e forte.
(2) Eri seduta levati
Madre di tanti eroi
Oggi s'innalza un cantico
A te dai figli tuoi,
Che del materno orgoglio
Hanno ripieno il cor.
Tu vivi in Campidoglio
Tu sei regina ancor.
Passano gli anni e i secoli
Cangia d'aspetto il mondo,
Ma di perenne glora
È il nome tuo giocondo.
A te lo scettro e il soglio,
A te l'eterno allor.
Tu vivi in Campidoglio
Tu sei regina ancor.
 
(3) Era la quinta Costituzione, che in mezzo secolo proclamavasi nell'ex Regno

(4) In Nizza presa dai Francesci nel 1793, nella festa del 1. Agosto dello stesso anno, si diede il volo di uccelli, che portavano l'atto costituzionale, per annunziare al mondo la fraternità francese (Cantù Della Indipendenza Italiana).
Questa casa con loggia esiste ancora e si appartiene ai parenti dell'autore.

(5) Oltre molte canzonette patriottiche, ce n'era una in voga di V.Padula bellissima:
Il Merciaiuolo di Fiumefreddo. Può vedersi nelle poesie del suddetto autore.

(6) Sonata è la squilla. Già il grido di guerra
Terribile echeggia per l'itala terra;
Sonata è la squilla. Su, presto, fratelli,
Su presto corriamo la patria a salvar.
Brandite i fucili, le picche, i coltelli,
Fratelli, fratelli, corriamo a pugnar.
FUSINATO


(7) Dalle Ricordanze di Luigi Settembrini, pag.301 e 302 e pag. I. 294


I fratelli De Ambrosiis, Francesco, morto il 19 marzo 1848 all'età di 74 anni, e Raffaele, morto il 4 luglio 1830 a 62 anni, erano figli di Emiddio o Emigildo de Ambrosiis e di Anna Maria La Regina e abitavano nel palazzo La Regina (oggi Renzelli-Cristofaro) in piazza Selvaggi.
In verità la morte del decano Francesco de Ambrosiis fu dovuta alla partenza, avvenuta lo stesso giorno, del suo parente, Giuseppe La Regina, per la Lombardia al seguito della rivoluzionaria Cristina Trivulzio di Belgioioso.

Mariano Marsico, vescovo di San Marco-Bisignano, nato a Latronico da Egidio e Teresa Del Gaudio, morì a San Marco Argentano il 14 ottobre 1846

Mazzei Giuseppe fu Anatolio, di Ioggi, canonico teologo, morto il 25 luglio 1819 all'età di 60 anni nella sua casa in via del Seminario (oggi via Roma)

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A cura di Paolo Chiaselotti