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Questa pagina fa parte del sito "L'Ottocento dietro l'angolo"  (www.sanmarcoargentano.it/ottocento/index.htm) di Paolo Chiaselotti

DALLA CRONISTORIA DI SAN MARCO ARGENTANO
DI SALVATORE CRISTOFARO

PARTE III - TEMPI MODERNI

Cap. II Cap. III
Cap. IV / 1
Cap. IV / 2
Cap. V
Cap. VI
Cap. VII /1
Cap. VII /2
Cap. VIII
Cap. IX

Capitolo II

Dalla invasione francese e della Repubblica
fino ai regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat

I Sanmarchesi in tal periodo di tempo erano afflitti, se altro mai, come tutt'i regnicoli napoletani, per gli avvenimenti di quell'anno nefasto, di lugubre memoria. Impeti di procelle straordinarie e non[,] di tremuoti formidabili che facevano ricordare con terrore le catastrofi non molto lontane dell'83, le notizie delle rombanti eruzioni del vesuvio in Napoli e il disastro delle armi napolitane in Tolone, congiunto ad altre sventure locali, come di vittime di fulmini e di alcuni incendii, non che contristare e di paura di futuri danni riempire gli animi, facevan credere vicino il finimondo. La espillazione del denaro delle decime su l'entrate poi, e quello strano ed inconsulto provvedimento preso dal re nel 1797, col quale per supplire alla mancanza di moneta, si ordinava lo spoglio di tutti gli argenti ed ori dei luoghi pii, delle chiese e cappelle di cleri secolari e regolari d'ambo i sessi, resero vie maggiormente triste lo stato delle scontente popolazioni. Se ne estorsero anche di private contropolizze di banco, al furto legale anche la subdola ironia! Reliquie scampate qui a S. Marco al sacrilego, irriverente, immane spoglio della nostra cattedrale furono pochi oggetti, la statua in argento di S. Nicola di Bari, due candelieri, una croce con carte gloria pure in argento, misera parte di un gran parato di altare, cioè di candelieri N.18 con altrettante giarrette con analoghe fioriere. Facendosi schermo, come suole avvenire in simili eventi, della esecuzione di quel decreto infausto, furono derubati altri oggetti, una gran croce astile, un braccio di S. Dorotea ed altro. La tradizione indica ancora i nomi degli sciagurati, che misero le mani sacrileghe sopra oggetti sacri senza tremare. Io qui per carità di patria li taccio, ad anche perché i nipoti, migliori degli avi, non abbiano ad arrossirne. Gli emissarii politici, mandati dovunque, le loggie muratorie sparse per tutto il regno, e cresciute dall'entrare in esse di molti nobili, ribattizati ai nuovi principii; il fraternizzamento dei cittadini napoletani coi soldati francesi, approdati con la flotta in Napoli; le tardive persecuzioni, molestissima vigilanza e procedure vessatorie, rimedio peggiore del male, che ostilità di nemici e scontentezza di amici produceva; l'incendio delle navi, delle cannoniere e del corredo dell'arsenale; la partenza del re su la flotta di Nelson nel 21 Dicembre con la famiglia, con Acton, con ventimila milioni in denaro e sessantamila in gioie, non lasciando ordini o provvedimenti, sí l'anarchia la guerra esterna e la civile; ed infine l'opera incessante di Giacobini e Massoni (1) furono le cagioni che il regno tutto sconvolsero, prepara[ro]no la via agli eserciti di Francia, ed affrettarono il nuovo ordine di cose. Istituzioni effimere alle quali il popolo non era maturo. La libertà importata da sette e da stranieri sconvolse è vero il nostro popolo, ma fu come il sasso caduto dalla rupe vicina nella tranquilla onda di un lago che in cento e cento rote lo infrange, lo perturba, ma rimane chiuso e riflesso nello specchio del lago medesimo. Quando penso ai trentamila cadaveri che la invasione straniera costò al popolo napoletano che insorse a difesa della indipendenza patria contro l'invasore, al quale ne costò mille, nelle mani mi trema la penna. S.Marco, paese eminentemente agricolo, onde gli avvenne d'esser distolto dal suo stato naturale, è regredito; era eziandio familiare della monarchia, quindi non che sentir bisogno, non era inchinevole a repubblica. La Repubblica, dice il Colletta (2) è sconvenevole a popolo invecchiato nella obbedienza, cui mancano così le virtù della giovinezza come il senso di matura civiltà e il Mauro (3) in questi tempi di ansiose ricerche, di dubbii infioriti, di ambizioni, di corruttela, di divisioni, di egosimo, la repubblica è un sogno, un sogno celeste fatto da dannati.
Intanto l'eco della terribile rivoluzione, dalla Senna si ripercosse tra il fremito dei boschi secolari della Calabria, i Giacobini che l'avevano preparata effettuarono gli ordini repubblicani in S.Marco.
Giacomo Greco da Cerisano, possidente ed armaiuolo meccanico, domiciliato in Cervicati in tale epoca, indi in S.Marco, dove in seconde nozze sposò una cugina di mio padre, una con Ciro Basile da Torano Castello e dott. Lorenzo Barci da Mongrassano, impiantarono la Massoneria in S.Marco. In casa di Candela Filippo, i due fratelli Candela, i fratelli de Ambrosiis, Valentoni Ignazio, Fera Filippo, Amodei Andrea ed altri tre preti, di cui non ricordo il nome, furono per prima iniziati ed affiliati ai misteri della setta. Sorpasserei i limiti al mio lavoro, se qui volessi intrattenere il lettore intorno ai riti e alle cerimonie, terribili insieme e funesti, con che venivano ricevuti con calcolate prove gli adepti. Apparati mortuarii, teschi di morti e pugnali erano gli obbietti preparati che in camera priva di ogni luce si sperimentava il coraggio di essi. Si era aggiunto l'elemento popolare in gran copia e crebbe tanto da potersi formare una loggia della quale ora il Basile ora il Barci fungeva da gran maestro. Da cotesta loggia massonica nacquero più tardi, dopo circa una diecina d'anni, le due Vendite dei Carbonari, di che avrò a dire appresso, che, postisi in comunicazione coi Giacobini di Napoli, aventi lo scopo medesimo, prepararono e produssero i moti del 1820.
I massoni mentovati di sopra, ordinandosi a sforzo di insurrezione, a somiglianza di quegli uccelli negri, che, per librarsi, aspettano le tenebre della notte, per mano di forte virtù visiva, non osarono di uscire all'aperto per manco di forze, neppure quando di già in Napoli erasi proclamata la Repubblica partenopea.
Un bel giorno però i tre massoni, seguiti dai Sammarchesi e fatti forti di una turba armata dei Casali Albanesi che occupano parte dei dintorni di S.Marco, Mongrassanesi, Sammartinesi, Cervicatesi, Sangiovannesi, spinti dal nostro conterraneo Amodei Andrea, eziandio massone, piantaro in S.Marco due Alberi repubblicani in sul davanti della Chiesa di S.Marco Evangelista l'uno, nella piazza di basso, avanti la chiesa di S.Giovanni Battista, oggi piazza Vincenzo selvaggi, l'altro. In su la cima di detti alberi il berretto frigio il fascio unito di verghe, sormontato dalla scure, simbolo dei fasci romani e del potere del popolo. (4)
Tosto un pazzo dar ne le campane, un furore di grida, un dirsi aboliti i diritti feudali, un abbruciar stemmi, fidecommessi e statue, un assembrarsi a tumulto, dichiarar decaduto il Borbone e il Marchese, fu l'opera e la gazzarra di quel giorno. Indi alternar folli danze, cantar inni alla libertà, all'eguaglianza, alla fraternità oratori improvvisati spiegare al popolo, Dio sa in qual modo e in qual forma, i diritti dell'uomo, (5) unirsi in matrimonio sotto gli alberi coi riti massonici, stringendo, come in luogo sacro, parentadi e accordi; forse perché il primo conjiugio naturale tra i nostri progenitori in Eden s'inaugurò all'ombra del mistico albero della scienza del bene e del male, benedetto dal Creatore.
Nota triste ed empio ricordo in mezzo a scena commovente, sublime; cessati i dissidii e gli odii di parte; un velo sui rancori privati e particolari recriminazioni: tutti abbracciandosi, versavan lagrime di tenerezza, com'ebbe a raccontarmi il Greco, che pensava di affidare ad uno scritto, interrotto dalla morte di lui, reiterandosi proposte di fratellanza e rimettendosi al popolo dai ricchi sconto di debiti. Era allora in S. Marco un Monte di pietà e di pegni: e si stabilì da chi ne avea l'Amministrazione, che nel riscuotersi dalle parti gli Oggetti pignorati, si dovesse rilasciare ai pignoranti metà delle somme ricevute dal monte. Per turno si alternavano dei banchetti e i convitati portavano sospeso al petto il berretto frigio ed il cosi detto scintillon.
L'atto pubblico di un prete apostata, cui non nomino [Andrea Amodei?], perché il pubblico biasimo non fa bene a nessuno, rese disgustoso il prorompere della espansione repubblicana, ingenerando ribrezzo alle persone di buona volontà, gioia maligna nei tristi, audacia nei ribaldi. Per asservire ai massonici riti, a ludibrio del proprio stato, a disdoro dell'antico e onorato cognome, fu veduto menare impudica briffalda sotto il simbolico albero; e fra la ridda vortuosa di sfrontati compagni stringer apparente matrimonio, a par di moglie lordo contratto con quella! La brutta scena l'avrei taciuta per generoso sdegno, se il non rievocarla da quelli, che si ebber notizia non fosse venuto biasimo di parzialità allo storiografo.
Dallo stesso Greco appresi incidente che per una fiata l'inverecondo tripudio di saturnali rivoluzionarii sospese e che senza l'intervento del sindaco dei nobili Giuseppe Fera, di quello del popolo Antonio Cristofaro, uno dei miei antenati, avrebbe prodotto conseguenze funeste, fiere e di discordi voleri nuovo dissidio. In quella che sotto l'albero della piazza S. Giovanni Battista trescavasi, dallacasa li vicina di un certo Artusi [Domenico?], in fama di profano, vocabolo usato in quel tempo per distinguere i non affiliati alla setta, partì un colpo di fucile inconsultamente, che per fortuna andò a vuoto senza ferir nessuno. Fra gente, per la quale repubblica era ed è tuttavia sinonimo di anarchia e di licenza, fu scintilla di vero incendio. Sparsosi l'allarme fra i seguaci del giacobinismo, se i buoni uffizii dei sovradetti Sindaci ed eletti, e dei popolari Talarico, Mele e Martini, in fama di patrioti, come pure dei capi massoni non fossero intervenuti, e il non essersi ferito alcuno; quell'audace sarebbe stato obbietto delle ire della moltitudine e le vie si sarebbero vedute tinte di sangue fraterno. Fatti sbollire gli sdegni, e prevalsi sani consigli, non che essersi fatto fuggire l'improvvido Artusi, si risparmiò dal sacco e dal fuoco la casa di lui. Vuoi per effetto di questo incidente, vuoi per il ricordo del fatto, che Albanesi in quel tempo, fautori di repubblica; una masnada di quelli, immemori dell'ospitalità accordati tanti secoli dietro ai loro padri, coi quali i nostri divisero territori e montagne, dopo qualche mese dall'impianto della repubblica qui in S.Marco, e propriamente in giugno, quando intenti alla mietitura erano sparsi pei campi i nostri cittadini; venne, armata mano, a tamburo battente a riversarsi sulla nostra città, compiendo l'eroismo di svaligiare nel sacro nome di libertà molte case di lavoratori deserte. Da quel tempo, ogni volta che che politiche commozioni e popolari tumulti fanno il buoi nel mondo, sta sempre in mente al nostro popolo che una irruzione di Albanesi rinnovi quelle eroiche gesta. Oggi ricordarlo fa sdegno e schifo, temerlo desta sorriso e compassione. Nel 1848 alcuni depravati il cui nome lascio sulla punta della penna, perché alcuna gloria i rei avrebber d'elli, andarono per pescare; ma i nipoti dei figli di Skanderbek, sul cui capo ormai è passato un secolo di civiltà, han respinto la infame proposta dei rinnegati con isdegno. Agli stessi mi sento l'animo inchinevole, quando da qualche vecchio Mongrassanese si fa correre certa vanteria di aver trafugato grande antica campana della Chiesa di S. Maria della mattina, monastero dei Cisterciensi, di già soppresso, e averla fatta trasportare da due paia di buoi per lo mezzo della città nostra fra due schiere di armati, come se fosse un cannone tolto in battaglia senza che la città se ne addasse. Piccineria o debolezza umana?
Menar vanto di un furto! Pure non debbo tacere che la responsabilità del fatto cade sopra Francesco Sarri [Domenico La Regina di San Marco ne aveva sposato la figlia] di Mongrassano, sotto ispettore della vendita dei beni demaniali nella provincia di Cosenza, che finì la vita nel chiostro dei nostri Riformati.
Fu egli che in forza dei suoi poteri permise ai suoi conterranei la indebita appropriazione. La indifferenza poi di quella campana, che in ogni 5 Agosto chiamava a perdonanza i fedeli in quella Chiesa di frati, fu muta indignazione e rimpianto ai tempi sciagurati.
Non parmi fuor di proposito riprodurre qui l'epigrafe in lettere semigotiche e rilevate intorno al giro della campana, accennati all'Abate di cui v'è un'effige mitrata che la fece fondere, al campanista che la fuse e al tempo in cui fu fatta fondere. Ecco l'epigrafe:
TPO E ABBI: ROGERIO DCRO D ANO DNI: M: CCC: XXX: VI: III, INDICIONIS + MAGISTER GVILLELMUS: DE LAURIO MEHGIG DEO GRS +
Piuttosto se dovessi chiamare in colpa i miei conterranei e colpa ne hanno, in questo spazio di tempo, in cui tante rovine e naufragi ne oscurano la storia; il farei perché lasciarono distruggere l'ospizio di S. Maria ad Nives su la Conicella. D'altronte era il tributo che si pagava al secolo nemico di chiese, di preti, di frati. Eppure è vano il negare l'utilità che in caso di bisogno ne avrebbe potuto trarre la smemorata città. In caso di calamità pubbliche o d'altro avrebbe potuto servire per lazzaretto, per Camposanto, per luogo di ritiro per sacerdoti. I Cervicatesi per prima, mi diceva mio padre, cominciarono dallo scovrire il tetto e toglersi travi, tegole e imposte, e siccome verso quell'epoca in circa si fabbricava il nuovo seminario, e quindi si senì il bisogno del vecchio materiale di quello, e, fattane domanda al Demanio, venne qui trasportato, le pietre, anche le pietre di quell'antica costruzione si sarebbero portate via. E così di una Abadia di sette secoli in men d'un paio d'anni in quel loco deserto non rimase pietra sopra pietra.
Non vorrò allontanarmi dai delirii, onde le menti erano pervase, senza addurre i canti con che si ritraevano i sentimenti che occupavano quell'età, e la contrassegnavamo, e che ancora oggi sono come le marche per le quali si riconosce: Sotto gli Alberi di libertà e tra i clubs solevano recitare oltre, molte altre, queste strofe di Ferocades il poeta del '99 come Berchet e Rossetti sono i poeti del 1820 e Mameli del 1848.
 
Son Finite l'eminenze
L'eccellenze e la maestà,
Una cosa ci è rimasta
Uguaglianza e libertà
Siam fratelli, siamo amici
senza impero e servitù
Siamo liberi e felici
Dove regna la virtù

Da Cosenza a scopo di organizzare il governo repubblicano furono mandati in S. Marco un certo Malena e un certo Manazzi in qualità di emissari politici ch'ebbero accoglienze da quelli di loro parte entusiastiche e rumorose; e costoro fecero che su la torre sventolasse la bandiera dei Giacobini, avente tre colori, bianco, rosso e bleu. Un'altra se ne pose su l'arco (ora tolto via) della torretta vecchia della strada Santomarco, ed una terza in altro arco accanto ad altra torretta (oramai anche tolti via) che in antico esistevano all'entrata del paese della strada Santopietro. I due emissari repubblicani, di tre cotte, come suol dirsi, costituirono un Comitato di salute pubblica; ma i nomi di coloro che ne fecero parte, o perchè vollero coprirsi a prudente riserbo non giunsero a mia notizia e neanche il Greco che tante cose ricordava non me ne seppe dir nulla.
I democratici, anche nei piccoli centri, come S.Marco, venivano esaltati dalla presenza dei Giacobini che dovunque spadroneggiavano: tredici mesi di repubblica furono tredici mesi di perenne gulloria invereconda: quell'aurea di libertà produceva sedizioni, non rivoluzione. La rivoluzione è l'idea e l'aspirazione di un'epoca, e quell'epoca nei luoghi nostri non era matura a poter esprimere idee, che non aveva. Mentre da un lato si profittava del nome di repubblica per cessare di ogni obbedienza, e adusare il potere in vendette, prepotenze, indebite appropriazioni e malcelate invidie, onde a scopo di far sparire titoli di censi, dovuti alle chiese, bruciaronsi e fu cosa nefasta, gli Archivi della cattedrale, prezioso tesoro di documenti della città e della chiesa di S.Marco; dall'altro lato gli indipendenti cessato quel primo scatto di gioia, onde color di rosa era apparso l'avvenire, voltati a parte regia, dallo straniero chiamati briganti, e come tali perseguitati, catturati e giustiziati; empivano di terrore le menti, di strazi orribili i campi e i boschi, d'incendi, di lutti, di lagrime le città Sequestravano alla lor volta, spogliavano non meno i pacifici che stavano tra l'incudine e il martello, quanto quelli di parte avversa.
Il povero nostro non era torturato meno dall'orde brigantesche che dai repubblicani, i quali applicando a strapazzo quel che sentivano dal di fuori, si permettevano ogni licenza. Guai a chi in città non usasse insegne repubblicane: capelli alla Bruto, pantaloni alla patriota, cappelli alla giacobina. Intanto si depredavano chiese, si spogliavano monasteri e Monti di pietà.
Dimenticata la benignità, nacque gara di barbarie. Il primo uo della libertà consisteva nel restringere la libertà vietata ogni pubblicità di culto; vietato portare il viatico ai moribondi che in S. Marco soleva accompagnarsi con apposita musica di violini ed altri strumenti per speciale legato; ristretto a certe ore e a pochi tocchi suonar le campane, vietati certi tagli di abiti sotto pena degli arresti; i preti che schivarono gettarsi nell'orgia, né menare una donna all'albero per sposarla, erano obbietti di frequenti insulti della follia dei pochi. Il popolo, ho a ripetere, alle improntitudini di quei tribuni da trivio, era estraneo, come estraneo era pure agl'ideali di libertà vera, poiché:
.... Desio verace
di prisca intera libertà non entra
in questo popol guasto (6)
Se non che, preti, frati e la estesissima loro clientela contro di cui paravano rivolti i dardi della rivoluzione, parvero dolenti d'aver partecipato ai primi empiti di gioia; e di dì in dì viè più sbigottiti dalle irruenti novità dai fasti che si propagavano dai sovvertitori della fede e dei troni, dai terroristi e dai regiadi, ritenevano come colpa parteggiare per la repubblica, e tornava ai miti e soavi consigli dei domestici focolari.
Il Colletta, che sminuzza i fatti di quel tempo, assicura che i fautori delle cose nuove in tutto il regno erano ai contrarii, come dieci a cento. (7)
Lo intesi dalla bocca dei nostri vecchi che chiamavano regime paterno il feudale che estorqueva e smungeva a proprio senno da una parte; e dall'altra con prodigalità cointeressata regolava senza misura alla stregua del volere arbitrario. A quei particolari mi sentivo ribollir dentro l'animo giovanile e baldo, ma la riverenza in che ho tenuto sempre la veneranda canizie, mi frenava la lingua. Per questo forse mi son ricordato del parere dei nostri avi, parere che vale a contrassegnare un passato cui cento conati di rivoluzioni irremissibilmente spinsero tra il cozzo dei secoli nel seno dell'abisso.
Capitolo III

 


 

(1) La vanità pretese radici remote o illustri alla Frammassoneria, n'è v'è insigne nome cui non se ne sia attribuita la istituzione: dallo Arcangiolo Michele fino a Socino e a Cromvel; e quanti segni mai fecero le arcane società per nobilitarsi di un'antica origine, questa l'adottò e la imbellì. Chi la derivò dal tempio di Solomone,chi dai misteri egizii e averlo perfezionata Manete; i cui discepoli tramandarono il culto del G.A.D.U. (Grande Architetto dell'Universo); essa insegnò nei primi tempi la civiltà agli Europei, sotto il nome di Pitagora; poi nel medio evo conservò la tradizione del sapere, con le Crociate venne in Europa per via degli Spedalieri e Templari alla cui distruzione sopravvisse arcana. Nel fatto le loggie muratorie non erano altre che una delle tante associazioni, per cui nel medio evo la industria cercava difesa fra tanti nemici, sussisio in tanta scarsezza di mezzi.
La tradizione di mezzi architettonici era fra essi custodita con la gelosia allora comune a tutti i metodi. La chiesa di Strasburgo nel 1277 fu fabbricata da una società di Liberi muratori e la somiglianza delle costruzioni contemporanee lascia supporre eguaglianza di riti.
Quell'associazione fu riconosciuta dai principi, e Massimiliano imperatore ne confermò lo Statuto (vedasi l'opera di Fab.Rossetti. Il Mistero dell'Amor Platonico, derivato dai misteri antichi. Londra 1840). Ma la Massoneria prese la maggior parte dei riti e dei simboli dal tempio di Salomone. Il quale si delinea tuttavia nelle sue loggie; simboliche le due colonne, simbolico il mare coi suoi dodici Cori, simbolico il candeliere dai sette becchi; simbolici i nomi degli artefici lavoratori ed apprendisti. Simbola la supposta parola d'ordine, il triangolo, il compasso, il martello, la cazzuola. In Francia offriva il tipo di una società costituita sopra i principii differenti dalla società civile. Nelle loggie nessuna prerogativa ereditaria, sulle pareti del Gabinetto delle Riflessioni, tra i parati neri e gli emblemi mortuari leggevasi: Se curi le distinzioni umane, qui sono sconosciute.
Il neofita udiva dall'oratore che scopo della massoneria era il separare ogni distinzione di razza, di colore, di patria, svellere gli odii nazionali, il fanatismo, siccome il tempio dell'Architetto dell'Universo era innalzato dai sapienti dei vari climi; sopra il trono del Venerabile di ciascuna Loggia vedevasi il Triangolo col nome ebraico di Jeova, a significare che l'unico dovere dell'iniziato era l'adorare Dio. Appartenendovi una folla di persone avverse alle sovversioni sociali, i più ardenti istituirono nuovi gradi segreti, a cui non si giungeva, se non che attraverso a prove per attestare il progresso dell'educazione rivoluzionaria. Così v'ebbe 33 gradi, di cui i primi quattro han simbolo di muratori; dal V al XVIII indicano una cavalleria religiosa, al XXX si riceve la soluzione del problema adombrato da precedenti (Cantù, St. Univ. Vol. VI Ep. VII pag.92 - Raghellini, La Maçonnerie considuae comme le resultatt Religious egyptionne, suive et Chretienne Gend. 1828 Barruel tom. III e IV).
D'altronde è incontrastabile che le sette, cotesti consorzii che si tengono a nascondigli, esistettero in tutti i secoli, poiché in ogni tempo fu una classe di persone che, o per custodire metodi segreti di arti o per professare opinioni pericolose od avverse ai poteri pubblici, pensarono in modo diverso all'universale. E a secondo di nazioni e di tempi coteste classi mutaron mezzi, nomi, scopi e forme.
Cagliostro, quel gran ciurmadore che pretendeva aver ricevuto la iniziazione dallo stesso gran Cofto, cui aveva visitato in oriente, fu il fondatore della Massoneria egiziana, della quale cominciò ad aprir loggie in Europa verso il 1774 (Giulio Sain Felix III pag.36): prima di lasciar Londra comprò da un libraio un manoscritto che trattava della Massoneria egiziana, secondo un metodo che aveva qualcosa di magico e di superstizioso. Ei risolse con tal piano formare un muovo rito massonico, scartando, egli dice, la magia e la superstizione. Stabilì infatti questo sistema e il rito, di cui fu il fondatore e che tanto contribuì alla celebrità del suo autore, si propagò in tutte le parti del mondo. Questa è la Frammassoneria egiziana  con che Cagliostro avea la pretesa di formare, soppiantando l'antica Massoneria una filantropia tutta cristiana, onde fu preso per savio riformatore.

(2) Storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta Vol.1 Libro III, pag.148.

(3) Opera del nostro calabrese Domenico Mauro, dei Mille di Marsala, pubblicata nel 1853; se non erro in Torino pubblicò un libro al quale né i tempi in quello preannunziati, né i propri concittadini che nel 1860 videro l'avveramento delle cose in quel libro predette, fecero quella giustizia e plauso, che senza alcun dubbio avrebbe meritato.

(4) Ezzechiele sotto la figura di un Albero raffigura Lucifero, nessuna pianta fu in Eden da rassomigliare a lui (cap.XXVIII v.2 e seg.)

(5) Forse per ragione di questo testo scritturale i Massoni repubblicani adottarono l'insegna dell'Albero, quasi che l'Albero della scienza del bene e del male in Eden fosse stato il vessillo, sotto di cui Satana ha vinto. Quegli alberi di libertà sparsero i primi semi di una idea e di una gente italiana.

(6) Alfieri - Tragedie

(7) Libr. 4 IV § 14

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A cura di Paolo Chiaselotti