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Questa pagina fa parte del sito "L'Ottocento dietro l'angolo"  (www.sanmarcoargentano.it/ottocento/index.htm) di Paolo Chiaselotti

DALLA CRONISTORIA DI SAN MARCO ARGENTANO
DI SALVATORE CRISTOFARO

PARTE III - TEMPI MODERNI

Cap. II
Cap. III
Cap. IV / 1
Cap. IV / 2
Cap. V
Cap. VI
Cap. VII /1 Cap. VII /2
Cap. VIII
Cap. IX

Capitolo VII - parte 1a

I dieci anni che precedono il 1860

S.Marco, come tutte le provincie del mezzogiorno d'Italia, pareva composta a quiete, ma il fuoco, come quello di un vulcano sotterraneo, ardeva sotto cenere; si parlavan blandizie di pace, ma ordinavasi a sforzo di guerra, perocché nè le fedi cadute, nè le speranze deluse eran morte. Se non che parea si dormisse, ma non dormivano quelli, sopra dei quali pendeva imminente il pericolo di prigione e di esilio; il sospetto aveva chiuso i cuori sì, ma la vigilanza della polizia, gli arbitrii erano senza limiti contro i così detti attendibili, che, vedendosi preclusa ogni via di prodursi, gettavansi al disperato.
Fin dal 12 marzo Ferdinando II sciolse il secondo parlamento e non più riconvocollo; onde a giustificazione della rotta fede del giuramento, amossi di far credere che i popoli del Napoletano fossero onninamente avversi agli ordini costituzionali. Da quelli di parte borbonica per questo in S.Marco, come in tutti i paesi, si richiese a ciascuno la propria firma, che attestasse non volerne sapere di costituzione [vedi documento 1 e documento 2], nello intento di colorirsi dal governo la mancata fede. Molti consigliati da debolezza di carattere o da ingiustificato panico, firmarono; ma i moltissimi, ad onor del vero, sdegnosamente rifiutarono di covrire il brutto spergiuro. Il Re allora riunì la maggior parte dei Vescovi napoletani, a scopo, in mente sua di farsi sciogliere dal giuramento, consiglio ipocrita per attutire il rimorso, e per dire alle nazioni estere: I miei popoli sono contenti, e di ordini liberi, non vogliono saperne!
Postume scintille dell'incendio rivoluzionario non del tutto spento, scoppiarono in questo tempo dal cuore dei miei concittadini e divamparono. Tengo a dichiarare che, per quanto amore prendessi a narrare la cronica della mia città, questo amore mi si affievolisce e raffredda nel dovervi indugiare su certi punti, com'è quello che segue, e proseguo per forza, impaziente a distrigarmene. Senza grave motivo si volle far nascere certa briga, che non è mancata di produrre conseguenze spiacevoli, pur non si ebbe difetto di diligenze a domicilio presso le case degli attendibili, spie dappertutto, e passaggi di truppe come si sentisse rombare ancora il fiotto vorticoso della rivoluzione. Erasi tutto preparato per l'effettuazione del decreto di leva dalle autorità in mezzo alla piazza, S.Giovan Battista e si era sul punto di dar principio al sorteggio;, quando alcuni del popolo, strumento di molti, che aspettavano tra le quinte gli effetti, cominciarono a rumoreggiare, indi con aperte grida ad accusare di non so quali soprusi e parzialità i magistrati del Comune, intesi alla coscrizione, e ad eccitare i compagni apertamente alla sommossa, minacciando e terrorizzando quella parte di popolo che meno avventata dei provocatori, stava spettatrice per prender norma come andrebbe a finire il tumulto. Ma la sospensione della leva e quattro o cinque arresti dei caporioni furono il termine dell'improvvido tentativo, di cui non ho potuto capire chiaramente lo scopo, salvo che possa dirsi una stoltezza senza scopo manifesto.
Forse si credette che dopo una rivoluzione disfatta, di coscrizione di soldati non debbe aesser più nulla. Inganno e malafede di sobillatori! Capi espiatorii furono Antonio Carrozzino, Vincenzo Talarico-Gelardi, e Raffaele Arcuri, che scontarono con alcuni anni di carcere il loro intempestivo ardimento, ma gli eccitatori che avevano al certo biechi disegni, rimasero nascosti nell'ombra. Per una volta un avanzo delle contribuzioni del Circolo, già, disciolto, servì a soccorrere quei tre operai, che languivano in carcere, e che per altro erano reputati buoni ed onesti patrioti. I rigori di polizia raddoppiavansi, specie quando nel 12 giugno 1857 avvenne lo sbarco di Carlo Pisacane a Sapri. (1) Ma insieme col raddoppiarsi dei rigori, si facean maggiori desiderii e speranze, poiché fra le incertezze dei tempi, libri, giornali ed emissarii politici, gonfiando fatti e notizie, strombazzavano ai quattro venti essere imminente il grande avvenimento dell'italica insurrezione.
Fu intorno a questo tempo che Luciano Murat, figlio di Re Gioacchino fe' correre alcuni emissarii nel napoletano, promettendo protezione della Francia ed aiuti interni, ove mai si fosse parteggiato per collocarlo sul trono che il padre di lui non aveva saputo ritenersi; e lo stesso messaggio per mezzo degli amici di Saliceti fu fatto pervenire quasi a tutti i capi politici del meridione d'Italia. Il padre di lui, del proclama di Rimini e dei beneficii a noi dal suo regno derivati, avea lasciato poco desiderio di sé, perché occupato sempre negli appresti della guerra. Dall'altra parte l'Italia avea adottato di già il programma dell'unità; se lungi dall'eseguirlo, si fosse venuti ad elezione di nuovi re, non si sarebbe riuscito a fare la nazione. Laonde ad un tal Pannaino di Cassano, che, sfuggendo l'ire governative, qui rifugiatosi, chiedeva sul proposito il parere di S.Marco; fu risposto: che l'Italia non parteggiava per re stranieri; d'altronde nel tempo dei pericoli e delle oppressure non un aiuto, non un conforto ci era venuto da lui; indifferente del tutto ai martirii della tirannide; ed ora che pare che voglia arriderci un guardo di fortuna, promette protezione ed aiuti? Un principe, che non ha mai avuto per noi sensi di pietà pel nostro popolo, ne vuol cingere la non meritata corona? Questa la risposta e di pratiche murattiane non fu più nulla.
Altra ragione, che valse vie maggiormente ad infierire rigori, onde credevasi di puntellare l'edificio, ormai scrollato del trono, fu l'attentato di Agesilao Milano a re Ferdinando.
È cosa ormai nota, che i tentativi non riusciti, ribadiscono le catene degli schiavi. L'8 dicembre del 1856 l'esercito napoletano era in rivista alla presenza del re e della baionetta infissa al fucile, vibrargli terribile colpo, fu un punto solo. Il colpo dell'atto temerario ed insensato andò a vuoto, e cotesto Bruto in diciottesimo scontò con la morte, alla quale andò imperturbabile, lo stolto attentato. (2) Non si hanno parole abbastanza roventi per stimmatizzare ad infamia l'abbominevole delitto; e poi qual pro? Né il consorzio sociale né l'interesse della patria guadagna nulla.
Oggi le cose sono siffattamente ordinate che o la reggenza o altro re copre subito il trono vacante. Non vo' tacere però che fino a quando nelle scuole si presenta alle menti dei giovani lo spettro delle repubbliche di Grecia e Roma le idee malsane del regicidio, proiettando una sinistra luce, sono alimento nocevole offerto alla stessa educazione.
Cotesto avvenimento avvenuto in Napoli, rimbalzò in Calabria, dove non è è uomo di buon senso che non deplori l'opra esecranda del regicidio; eppure non si vide Andrea Chenier e Klopstok fare l'apoteosi di Carlotta Corday? Tutta la gioventù germanica celebrare Sand, uccisore di Kotzabue? Non è tutto giorno nelle scuole vantato l'eroismo di Armodio, di Timoleone, di Muzio Scevola? Il Milano appartenente alla diocesi di Bisignano, unita con quella di S. Marco, venne in questa città per richiedere al vescovo Parladore le sacre ordinazioni, essendo avviato al sacerdozio; e n'ebbe risposta che prese analoghe informazioni, se favorevoli, avrebbe coronato i voti del supplicante. Era di luglio, ed era l'ora di mezzogiorno, quando mi occorse vedere passare sotto la mia abitazione in quel che se ne andava tale, che per lo indizio dell'abito, credetti che fosse un mio antico amico che da più tempo aspettano, Antonio Conforti. Onde senza complimenti invitai il preteso prete albanese ad entrare in casa mia per prendere alcun riposo, compiendo seco lui tutti i doveri impostimi da ordinaria ospitalità, sebbene non il conforti ravvisai in lui ma il chierico Agesilao Milano. Era la prima volta che prendevamo di noi conoscenza, onde non ci credemmo autorizzati a nessuna confidenza. Mi disse solo d'essere stato qualche anno nel collegio di S.Demetrio; domandai di quei professori, gli dissi d'essere io invitato in quel Collegio dal Signor Rodotà [nel Novecento una Cristofaro sposerà un Rodotà!] ed oltre tali cose egli si mostrava preoccupato del ritardo, a cui avrebbe dovuto sottostare pel suo stato; e volendo anche sotto gli ardori di luglio partir subito dopo il pranzo, volli trattenerlo invero, mi fece vivi ringraziamenti, ci abbracciammo e ci dividemmo.
Cotesto semplice atto di cortesia, e il sospetto non del tutto cessato, ch'io avessi scritto la poesia su lo sbarco di Sapri ed altro che qui sarebbe vanagloria riferire, passione femminile sempre, dalla fortuna schernita; fecero sì, dopo l'attentato di Milano, che il mio povero nome venisse involto insieme con altri trentanove in una causa di regicidio, poichè una processura a Re Ferdinando diretta, denigrava quaranta individui, come pretesi complici del regicidio, includendovi eziandio la Signora Guzzolini come tenente in Napoli, dove dimorava per proprii negozii, le fila di una delittuosa ma immaginaria congiura. Fra i calunniati di S.Marco erano i fratelli Amodei Francesco ed Alfonso, Candela Pasquale, Rocco Raffaele e La Regina Vincenzo, dei quali Candela [e] Rocco erano con me addetti all'insegnamento nel Seminario. Per la qual cosa piacque a M[onsigno]r Parladore raccomandarci con favorevolissimi rapporti (3) ed al Signor Bianchini, allora Ministro di Polizia, devesi il non aver sofferto carcere preventivo. Solo dodici di quei quaranta furono dichiarati innocenti, fra cui il mio povero nome con non esservi luogo a procedere per inesistenza del reato.
Forse in parte pure debbo la mia incolpevolezza a circostanza fortuita; in quella che per l'oggetto, dietro accennato, dal Giudice Istruttore eseguivasi nella mia abitazione minuta diligenza; capitò per caso in S. Marco un mio vecchio amico, Stanislao Mele, che, venuto in conoscenza dell'operazione che si compiva in casa mia, si fece immantinenti introdurre dalle guardie, perché amico del Giudice inquisitore e del Cancelliere, e fingendo di non conoscermi, parlò con quelli segretamente ed andai scevro dell'incominciato rigore in leggere alcune lettere dimenticate del 48 di Mauro e Miraglia. Ed oltre a ciò, venuta nelle mani del cancelliere una coccarda dentro un libro, la fe' subito sparire.
Postumo ricordo ad onore di quel bravo funzionario, al quale, richiesto, rilasciai per l'uopo nel 1860 lodevole attestato.
Parmi cosa poco dilettevole pei lettori, i quali debbono al certo stancarsi in doversi indugiare sopra fatti, che, sebbene abbiano l'accenno storico del tempo, a cui appartengono, pure possono sembrare d'avere sembianze di privata storia.
Ma il ricordo dei benefizii, come quello del Segretario Monaco, è sempre grato e bello per le anime gentili; nel 1861 nella chiesa dello Spirito Santo in Napoli mi occorse vedere il Bianchini ascoltar messa; il mio cuore esultò in mirare quella nobile figura, come, quando vedesi un uomo, coronata la fronte dell'aureola della virtù e della Scienza. Lode a chi è gran tempo in onore di lui e del figlio nel nome santo della patria riconoscente pose lapide commemorativa.
 
Capitolo VII seconda parte

 

 
(1) Per me, in quel tempo, cioè nel 1857, si scrisse un componimento. I trecento a Sapri. Non pubblicato corse manoscritto tra amici senza nome di autore; non potea restar nascosto in quei tempi inquisitorii; onde fui tosto chiamato in presenza di un Giudice Istruttore, un tal Barone, se non erro. Il quale per farmi confessare, mise in lode quei versi, ma io insistetti sul niego, ed affermai non che non esserne l'autore, di non averli neanco letti. Fui lasciato libero sì, ma ahi! quante molestie mi costò quella poesia per l'opra bieca dei tristi, che non vivono, se non per contristare i fratelli dell'esiglio.

(2) Lungo è l'elenco dei regicidi da Damiens agli anarchici moderni: Roberto Fran. Damiens assassinò Luigi XV nel 5 gennaio del 1757 - Giovanni Ankorstrom, cavaliere della spada nel 1692 in una festa da ballo assassinò il gran Gustavo Wasc, re di Svezia - Francesco Ravaillac, monaco nel 14 Maggio del 1610 uccise Enrico IV. Prima di lui altri cinque scellerati avevano in diversi tempi tentato lo stesso delitto su la persona di questo re, di cui i Francesi idolatravano la memoria fino al 1789 - Giacomo Clement, giovane frate giacobino, ignorante, fanatico, presuntuoso, eccitato dai sedici [sidice?] uccise il Re Enrico III.
Divini i versi del Canto 2 della Basvilliana del Monti sopra costoro.
Ma fior portando in quel nuzzo apparve;
Sul Patibolo infame all'improvviso
Asceser quattro smisurate larve.
Stringe ognuna un pugnal di sangue intriso
Alla strozza un capestro la molesta
Torvo il cipiglio, dispietato il viso,
E scomposte le chiome in su la testa
Come campo di biada già matura,
Nel cui mezzo passata è la tempesta.
E su la fronte arroncigliata e scura
Scritto in sangue ciascuno il nome aveva,
Nome terror di regi e di natura.
Damiens l'uno. Ankastrom l'altro dice,
E l'altro Ravagliacco; ed il suo scritto
Il quarto con la man si nascondea.

Non è guari ahime! e la tragedia di Monza, torva nefanda, compassionevole di una fosca nube ha velato il bel cielo d'Italia, e d'una tristezza inconsolabile ha costernato i cuori. Umberto I di Savoia, re d'Italia, cadde per mano di un vile delinquente, di un Bresci. Dopo due altri attentati il piombo di un senza nome e senza patria ruppe il cuore generoso di un re che in mezzo ai secoli andrà commemorato col nome di re leale e buono. Oggi ci è forza abbassare gli occhi e curvare la fronte; gl'ideali divini sono offuscati di un velo di lagrime perché il ferro di uno scellerato ha spento il miglior Re!

(3) Ed ebbe il cuor di un padre, a cui sol preme
L'amor dei figli, ei rallegrò di aita
In mille gruse le miserie estreme.
V'è chi per esso la prigione evita,
V'è chi per sua mercè da ceppi è sciolto,
V'è chi per esso è salvo della vita.
(Versi di S.Cristofaro)


Giuseppe Pannaino, nato a Cassano da Cesare e Giovannina Sacchini, aveva sposato a San Marco Argentano nel 1838 Maria Giovanna Campagna, figlia di Carlo e di Teresina Bernaudo

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A cura di Paolo Chiaselotti