A cose men tristi volge il mio racconto. Era il 1853 e M[onsignor] Parladore, poichè
nella cattedrale avea fatto costruire magnifica cappella, consacrata al SS. Sacramento
ne indissi il festeggiamento per l'inaugurazione solenne. Le feste durarono tre
giorni: in ognuno di essi lo sparo di cento e uno mortaretti e la dispensa di cento
e uno pani. Intervennero tutti i Parroci della Diocesi di S.Marco e Bisignano, da
cui vennero pure molti distinti gentiluomini. Da Roma e da Napoli i corrispondenti
vescovili; ed il concorso straordinario delle persone anzi di famiglie intere resero
quelle feste più allegre.
(1)
Nel primo giorno si fece da Monsignore la lunga funzione della consacrazione dell'Altare;
nel secondo recita del discorso del mio caro Ferdinando Balsano; nel terzo pontificale
e ringraziamento. Per non tediare il lettore tralascio qui la descrizione di essa
cappella, dell'altare di marmo e delle argenterie, di che ho parlato nella succinta
biografia dello stesso vescovo. Ma la descrizione in latino scritta dallo stesso
Vescovo la lascio in Archivio in una piccola Platea, arricchita di altri documenti
relativi a S.Marco.
Poco tempo dopo per la ricorrenza dell'inaugurazione della strada rotabile che militare
allora si denominava [
nel 1863 i lavori risultano sospesi],
fu in S.marco l'intendente della Provincia Salvatore Mandarini e fu ospite di M[onsigno]r
Parladore, che sarei per dire, avea largheggiato in ogni guisa di gentili maniere
in trattare il capo della Provincia e il seguito ufficiale di lui. A quel vescovo
si dovette, non la strada certamente che dal governo borbonico erasi decretata per
ragioni politiche, ma dall'essersene affrettato l'iniziamento dei lavori, e dell'aver
percorso questo piuttosto che quel luogo non può negarsi che fu opera di
lui. Il Vescovo stesso disse dal trono il discorso inaugurale, e la intenzione e
il concetto parve dare l'idea, come, se si parlasse di governo, non già sventuratamente
minato e cadente, ma sì di governo raffermato e sicuro, Oh! quali previsioni,
di cui nessuna avverossi!
Giocondezza di feste di gioie novelle era seguita. Nel 1854, debbo tornare un po'
indietro, si festeggiò la Definizione dell'Immacolato Concepimento di Maria,
prima dal Vescovo Parladore in Cattedrale, poi dai Frati francescani nel Convento.
Pomposi addobbi nel tempio, solennità di funzioni sacre, sfolgorio di ceri
corruschi, spari di mortaretti sfoggio di arazzi sospesi tra festoni di verdura
illuminazioni in tutti i balconi e finestre, melodie musicali e laute imbandizioni
erano le note allegre di quel festivo tumulto. Erano quei festeggiamenti occasionali
o concetti determinati per distrarre le menti dalle cose del passato, per gettare
velo pietoso su le ferite della repressione, come quello, di che la pietà
spaventata di uomini consolari fe' coprire le ferite di Cesare? Io nol so, ma parea
ad evidenza che si volesse somministrare al popolo, che turbolento erasi mostrato,
una tazza di narcotico con gli orli aspersi di miele, ma il narcotico del fondo
non era valevole ad infondere obblivione alcuna ai bei sogni dorati della libertà
contesa.
Chi volge la mente a quei giorni, dirà che gli animi tutti, assorbiti da
quelle esultanze religiose, da quel pacifico assembramento del tempio di Dio, da
quella nuvola olezzante di sentimenti divoti, parea che nuotassero in certo tal
quale benessere, ond'erano avvolti, e avessero posto da banda le gravi cure, scordato
le oppressioni del passato e del presente. Quelle feste a dir vero erano una nota
allegra tra tempi di troppa mestizia offuscati, come splendido faro, che proietta
una pallida luce sopra inesplorati abissi.
Chi potrebbe affermare che tanto rumore di feste non abbia posto nel cuore di una
compagnia di briganti il primo desiderio di dar termine ad una vita, svolgentesi
contro Dio e contro i poteri sociali?
Ad un continuo timore di pericoli e di morte? Pur ciò nondimeno per opera
di M[onsignor] Parladore, che promise alla
banda di Francesco
La Valle che pel merito della presentazione si sarebbe scemata la condanna,
un bel giorno, ecco nell'episcopio venirsi a presentare quella compagnia, che ricattando
ed uccidendo erano gran cagione di perturbazione. Qualche sommetta di danaro a ciascheduno,
frutti di dispensa ed altro fu fatto ad essi tenere dal Vescovo, per la quale meritò
che il governo gli desse l'onoreficenza del gran Cordone d'Italia; brutta e immeritata
retribuzione fu al certo l'ingente furto e lo spoglio dell'episcopio perpetrato
da indigeni malfattori, mentre il Vescovo ritrovavasi in Roma al Concio Vaticano,
alla cooperazione di quel nobile fatto, onde la quiete e la sicurezza ritornava
tra i cittadini.
(2)
Ma non credo di farla da predicare, se dico che quel sacrilego furto per la derubazione
di tante cose sacre, e per lo oltraggio e l'atto irriverente verso la persona di
un Vescovo, che stava in Roma per gli interessi della Chiesa; Dio abbia veduto e
di già colmo il vaso dell'ira sua, e n'abbia diffuso il fatal liquore sulla
città dell'Evangelista.
Nel 1855 fu importato a S.Marco il
colera, quel flagello di Dio, misterioso però ed irreparabile, come
lo sdegno di colui, che, rompendo il vasello dell'ira sua, lo diffonde su la terra
peccatrice. Il profeta dell'Apocalisse ce ne porge una bella descrizione: cavalca
un cavallo pallidissimo e il sepolcro le cammina sulle spalle. Chi dirà lo
spavento, che agghiacciava il sangue nelle vene dei miei concittadini, quando la
terribile pestilenza dalle negre ali piovea la morte? Ahi! che il ricordo dopo tant'anni
nel pensiero rinnova la paura! Il tempo piovoso rendea quei giorni più tristi;
la pioggia oltre l'ordinario cadeva a catinelli; deserte tutte le vie della popolosa
città che presentava l'aspetto lugubre di vasto cimitero. Chiuse le botteghe,
molte case vuote, e frutta che altra volta formavano dolce pascolo, sparse per terra.
Gli animi paurosi ed esacerbati, perchè maligne insinuazioni di malvagi dvano
a credere essere opera del governo quella colerica invasione; nè altro si
vedeva per le strade che il prete, che portava il viatico ai moribondi; o il trasporto
continuo delle vittime del morbo, preceduto solo dalla croce.
Dal 21 novembre, giorno della Presentazione di maria, il turpe mostro si pose in
via alla voce del Signore, e riempì di lutto la città, di dolore le
famiglie, di trepidanza tutti. Le chiese erano pure deserte, ma non così
che pochi con occhi molli di lagrime mancassero mai ai piedi di Maria, il cui simulacro
era esposto, spandendo supplichevolmente l'anima addolorata ed afflitta, come gli
angeli solitarii, che con la preghiera placavano l'ira del Signore. E il signore
nella sua misericordia, per la intercessione di Maria, avvocata nostra, e dell'Evangelista,
nostro proteggitore, ebbe pietà della povera S.Marco, e nel dì 8 dicembre
dello stesso anno, non che non esservi stato nessun nuovo attacco del morbo, nessuno
degli attaccati nei giorni precedenti, di cui ve n'è tuttavia alcuno vivente,
ebbero a soccombre
. Qui mi si presenta nuovamente la nobile figura di Parladore, nella cui biografia
messa nella seconda parte di queste memorie il lettore ha veduto quello che operò
in S.Marco nella circostanza della colerica invasione.
(3) S.Marco giaceva depressa e terrorizzata e alla venuta
del Vescovo, che corse subito dal suo paese, riconfortandosi rialzavasi. Visitò
non una ma più fiate i colerosi tutti, dando non meno aiuti di conforti che
di danaro con mano sciolta.
E qui non parmi bello tacere di quei Sacerdoti che, mentre altri fuggiva, a capo
fitto, sprezzando ogni pericolo, si diedero all'assistenza dei colerosi. E ciò
non per vanitosa iattanza, che scolora la bellezza stessa delle opere buone, ma
perchè la memoria delle opere eroiche, oltre il conforto agli spiriti assetati
del bene, accendono con l'esempio gli animi a benfare. Francesco Parroco Polignano,
P. Andonio da Saracena dei M[inori] R[iformati],
Luigi
Romita, allora economo e lo scrivente di questi ricordi, (bando alla modestia
d'obbligo), sono nomi che S.Marco non deve obliare; perché di notte e di
giorno impreturbabilmente, senza timore di contagio, sedettero accanto ai letti
dei poveri infermi fino all'ultima agonia, confortandoli di aiuti spirituali. Egli
è gran tempo, o miei confratelli, che incrociando le braccia, e posando lo
stanco capo su l'origliere della morte, vi addormentaste nella pace del Signore.
I vostri nomi sono di già scritti nel libro della vita [
vedi
elenco morti colera], ma le vostre salme riposino in pace nella
polvere dei sepolcri!
Or vi torni a scena di dolore, che tante trepidanze e lagrime produsse e vuole arrestare
le ali del pensiero in men lacrimevoli casi! Anzi, se piace al lettore, vorrei chiudere
il presente capitolo, ricordando per scopo di onesta compiacenza la scuola, la coltura
del paese nel tempo di cui ho tratteggiato la storia. Amore all'arte, tendenza ai
medesimi ideali e affetto fraterno in questo tempo riuniva un drappello di amici
a quotidiani conversari.
Fra i pochi una col narratore di queste memorie erano
Cantisani Gaetano,
Rocco Raffaele [
Rocco ceppo 2] , Balsano Ferdinando,
Candela Pasquale, Cassani Vincenzo [
era
figlio di una De Chiara]ed altri
pochi, ahi! tutte care esistenze rapite innanzitempo all'amor mio! Tutti per più
e più anni incanutirono nell'insegnamento e nelle discipline educative e
l'insegnamento per essi era apostolato e sacerdozio; onde S.Marco li aveva in estimazione
ed in reverenza di amore.
Noi sempre uniti nelle ore di vacanza, assiduamente l'uno in cerca dell'altro, ci
amavamo assai, e reciproca estimazione era il fondamento del nostro amore. Una sola
ambizione in noi, quella d'emulare le virtù dell'altro; un solo fremito,
il dolore della patria, una speranza la redenzione dell'Italia, una sola cura la
gloria. I nostri non erano se non che convenii letterarii e scientifici, una palestra,
un nobile agone, una scuola, in cui si tempravano propositi di studii, di fede di
affetti. L'arte, la scienza e di tutte cose belle era l'obbietto innocente del nostro
favellare; e i nostri discorsi rallegravano i sogni dorati e le rosee illusioni
che sorridevano alle nostre giovanili fantasie. Alieni di mescolarci in alcuna scuola
e in nessun partito, seguitavamo, come meglio poteasi, per la propria salita, senza
assoggetarci a nessun domma, a nessun maestro secondo il gran consiglio di pascal;
indipendenza intellettuale.
Gli autori che leggevamo, obbietto di liberi giudizii, e su discordanza di essi,
non fu caso, in cui si attaccasse briga per sfoggio di sapere. I libri nuovi, appartenenti
ad uno, facevano il giro, perchè li leggessero tutti; nè ombra men
che lieve d'invidia allignava tra noi per chi dicesse meglio o di più. Si
aveva da ciascuno un nome convenzionale, e con questo tra noi si era usi appellarci,
occorrendo tener discorsi con altri di qualche socio, non che demolire il merito,
gli s'ingrandiva secondo il proprio potere.
Soleva darsi lettura dei nostri componimenti; ad unanimità di voti nominavasi
il lettore, gli avvocati e i giudici; l'autore non poteva difendersi, se non dopo
il giudizio di tutti; giudicare con libertà e franchezza era primo canone.
Non ci fu caso che i giudizii critici, le discussioni e gli apprezzamenti delle
cose lette tornassero, neppure per ombra ad offesa degli autori. Una volta si lesse
una mia novella; lettore Balsano, giudici Rocco e Cantisani, avvocato Cassani, avversario
contradicente Candela; ci fu un visibilio di pro e contro; e quando la discussione
vivace si chiuse, non ci fu ombra alcuna di risentimento o rancore.
Fra i passatempi onesti c'era questo; s'improvvisano sonetti, ottave od altro e
solea farsi così uno dava il concetto, e poi l'uno appresso dell'altro un
verso per ciascheduno, e ne riuscivano componimenti talora mediocri, buoni talora,
ora con caricature ora senza. Senza derogare alla individuale libertà, se
mancava qualcuno, si sentiva un vuoto e quindi si doveva dar ragione del non essersi
fatto vedere.
Oh! come a me superstite di quei dolci amici, solitarie e lugubri sembrano quelle
vie, che percorremmo sempre insieme! Oh, gioia di passeggi invidiati! Oh ricambio
di sinceri affetti di cuori, non vantatori di probità, ma probi! Oh simposii
fraterni, allietati da pacate e vereconde gioie! Quell'ulivo a pie' del quale solevamo
sedere, quel muricciolo sdrucito, quel pratello molle tappeto di verdura su cui
fra gli austeri discorsi e le manifestazioni serie del vero, si era vaghi di stender
le mani a cogliere i selvaggi fiori delle pratelline, oh quante memorie serbano
di ciascuno di noi! I seguenti versi, scritti dopo la morte di F.Balsano, riepilogano
in parte quello, che si agitava nell'animo nostro in quel tempo:
Noi ardevamo del desio di un nome,
e dello allor che solo si comparte
a chi d'Italia orni di un fior le chiome.
Nostra cura amorosa eran de l'arte
I sovrani ideali, e affaticava
L'alma lo studio de le dotte carte
Il magnanimo ardir si lamentava
Spento nei petti, e ognun di noi fremea
Sui gravi affanni de la patria schiava.
Libertà si cercava, e l'altra idea
D'unirsi in un amor scettro e tiara
Senza giogo stranier ci sorridea
(Per l'inaugurazione del Busto Rog. 10 ottobre 89)
La nostra brigata, le cui assidue adunanze parvero sospette, e come il lettore conobbe
dal luogo, dove accennai alla processura dei quaranta, invocarono fulmini; avea
il santo orgoglio di ricevere visite amorevoli di amici dei paesi circonvicini che
nutrivano intenti comuni coi nostri, ed il nostro circolo si allargava; ad essi
non era ignoto che in S.Marco era un gruppo di uomini, affratellati in un pensiero
e dimostrantisi pari a pleiade di stelle chiuse nella lor luce, che percorrono l'orbita
loro sotto procelloso cielo. Fu in quel tempo appunto che venne fra noi l'illustre
critico italiano Francesco De Sanctis, il quale dopo i rovesci del 1848 trovò
ricovero ospitale in qualità di precettore in casa Guzzolini in Cervicati;.
Or esso seguito da Marchianò Alfonso qui tra noi, or noi in Cervicati; e
nei cari alterni simposii tra i brindisi scambievoli e gli augurii ai tempi sperati
presedeva la più gioconda e modesta gioia, che aggiungeva un filo alla trama
di nostra angustiata esistenza. Nella stessa poesia dianzi citata, così parlò
del De Sanctis:
Oh simposii fraterni, ove colui
che del tiranno il rio furor fuggiva
Scampo cercava fra gli amici sui.
E tu (Fran. De Santis) pur vi venivi, anima schiva,
Dell'italo servaggio, la selvosa
Abbandonando tua Morra nativa.
E qui su l'ospital Borgo, che posa
In cima a poggio aereo, i primi germi
Gittavi di una scuola ormai famosa.
Che tu dell'arte agl'intelletti infermi
Gli alti veri scopristi, è insuperato
Fosti ne' voli tuoi robusti e fermi.
E dietro l'orme tuo stuolo onorato
Di giovani si spinse, e sotto il segno
Glorioso pugnò da te spiegato
Ibidem
In quel tempo il De Santis non avea pubblicato se non che la bella prefazione che
precede un'edizione delle Opere drammatiche di Schiller, e non ancora era salito
in fama; tenero partigiano della filosofia tedesca, come che lungo il cammino delle
assidue passeggiate amava che io gli facessi sostegno del mio braccio, mi teneva
lunghi discorsi per convertirmi alla sua maniera di credere e pensare. E poiché,
se bene o male non so, gli andava sciorinando in opposizione al suo dire le dottrine
di Gioberti, che allora avea tra mano, egli mi salutava col nome di Abate giobertiano.
Quando già salito in fama fu nominato Ministro della Pubblica Istruzione,
io era in Napoli, e mi parve che, se fossi andato a lui, la mia visita ssarebbe
sembrata cointeressata, e smisi. Ubbie e fisime di giovanili sdegni intempestivi.
Eravamo amici, e dovea vederlo, ecco, ora che ci penso, la verità.
Torneranno sempre care al mio cuore quelle giornate, quando seduti sotto l'ombra
di castagni in fiore, ignorando allora che colui, col quale avvicendavamo quei familiari
conversari, sarebbe divenuto uomo grande e di fama italiana. Intanto sì per
l'assiduità delle nostre riunioni, e sì perché la polizia teneva
gli occhi vigili su l'antico Segretario del Parlamento napoletano, qual era stato
il De Sanctis, fummo nuovamente calunniati, onde il De Sanctis fu obbligato cangiar
dimora, e poi battere l'oscura strada dell'esiglio, ch'ebbe termine nel 1860. Un'aura
di pace spirava in seno alle nostre adunanze e si viveva come tali, cui né
brama né timor governa seguivamo nostro proposito, in quella che come il
rombo, che precede la tempesta, rumoreggiava non lontano il nembo dell'ultima lotta
del 1860, e quasi pieni di questa vicina speme, non avvertivamo lo sguardo avverso
di fortuna e gli oltraggi immeritati degli uomini.
Capitolo VIII
(1) Presso il
Vescovo non mancarono le ospitali accoglienze.
(2) Il ladro
Schella [quasi certamente Chimenti Francescantonio
di Michele
ceppo 4] svelò che
l'argenteria fu presa da un prete. E questa è la misura capace a valutare
i tempi! ...
(3) In quel tempo
il Vescovo ed il Notaio restar dovevano in paese. Fu allora che il notaio Cristofaro
[Antonio (1795)
vedasi ceppo 1] fece voto
e donoò a S.Maria il piccolo organo che vi si trova.
Gaetano Cantisani, sacerdote, nato a Frascineto da Carlo e Vittoria Ferrari, morto
a San Marco Argentano il 25 maggio 1881 all'età di 70 anni