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Questa pagina fa parte del sito "L'Ottocento dietro l'angolo"  (www.sanmarcoargentano.it/ottocento/index.htm) di Paolo Chiaselotti

DALLA CRONISTORIA DI SAN MARCO ARGENTANO
DI SALVATORE CRISTOFARO

PARTE III - TEMPI MODERNI

Cap. II
Cap. III
Cap. IV / 1
Cap. IV / 2
Cap. V
Cap. VI
Cap. VII /1
Cap. VII /2
Cap. VIII
Cap. IX

Capitolo VII parte 2a

I dieci anni che precedono il 1860

Livio Parladore A cose men tristi volge il mio racconto. Era il 1853 e M[onsignor] Parladore, poichè nella cattedrale avea fatto costruire magnifica cappella, consacrata al SS. Sacramento ne indissi il festeggiamento per l'inaugurazione solenne. Le feste durarono tre giorni: in ognuno di essi lo sparo di cento e uno mortaretti e la dispensa di cento e uno pani. Intervennero tutti i Parroci della Diocesi di S.Marco e Bisignano, da cui vennero pure molti distinti gentiluomini. Da Roma e da Napoli i corrispondenti vescovili; ed il concorso straordinario delle persone anzi di famiglie intere resero quelle feste più allegre. (1) Nel primo giorno si fece da Monsignore la lunga funzione della consacrazione dell'Altare; nel secondo recita del discorso del mio caro Ferdinando Balsano; nel terzo pontificale e ringraziamento. Per non tediare il lettore tralascio qui la descrizione di essa cappella, dell'altare di marmo e delle argenterie, di che ho parlato nella succinta biografia dello stesso vescovo. Ma la descrizione in latino scritta dallo stesso Vescovo la lascio in Archivio in una piccola Platea, arricchita di altri documenti relativi a S.Marco.
Poco tempo dopo per la ricorrenza dell'inaugurazione della strada rotabile che militare allora si denominava [nel 1863 i lavori risultano sospesi], fu in S.marco l'intendente della Provincia Salvatore Mandarini e fu ospite di M[onsigno]r Parladore, che sarei per dire, avea largheggiato in ogni guisa di gentili maniere in trattare il capo della Provincia e il seguito ufficiale di lui. A quel vescovo si dovette, non la strada certamente che dal governo borbonico erasi decretata per ragioni politiche, ma dall'essersene affrettato l'iniziamento dei lavori, e dell'aver percorso questo piuttosto che quel luogo non può negarsi che fu opera di lui. Il Vescovo stesso disse dal trono il discorso inaugurale, e la intenzione e il concetto parve dare l'idea, come, se si parlasse di governo, non già sventuratamente minato e cadente, ma sì di governo raffermato e sicuro, Oh! quali previsioni, di cui nessuna avverossi!
Giocondezza di feste di gioie novelle era seguita. Nel 1854, debbo tornare un po' indietro, si festeggiò la Definizione dell'Immacolato Concepimento di Maria, prima dal Vescovo Parladore in Cattedrale, poi dai Frati francescani nel Convento. Pomposi addobbi nel tempio, solennità di funzioni sacre, sfolgorio di ceri corruschi, spari di mortaretti sfoggio di arazzi sospesi tra festoni di verdura illuminazioni in tutti i balconi e finestre, melodie musicali e laute imbandizioni erano le note allegre di quel festivo tumulto. Erano quei festeggiamenti occasionali o concetti determinati per distrarre le menti dalle cose del passato, per gettare velo pietoso su le ferite della repressione, come quello, di che la pietà spaventata di uomini consolari fe' coprire le ferite di Cesare? Io nol so, ma parea ad evidenza che si volesse somministrare al popolo, che turbolento erasi mostrato, una tazza di narcotico con gli orli aspersi di miele, ma il narcotico del fondo non era valevole ad infondere obblivione alcuna ai bei sogni dorati della libertà contesa.
Chi volge la mente a quei giorni, dirà che gli animi tutti, assorbiti da quelle esultanze religiose, da quel pacifico assembramento del tempio di Dio, da quella nuvola olezzante di sentimenti divoti, parea che nuotassero in certo tal quale benessere, ond'erano avvolti, e avessero posto da banda le gravi cure, scordato le oppressioni del passato e del presente. Quelle feste a dir vero erano una nota allegra tra tempi di troppa mestizia offuscati, come splendido faro, che proietta una pallida luce sopra inesplorati abissi.
Chi potrebbe affermare che tanto rumore di feste non abbia posto nel cuore di una compagnia di briganti il primo desiderio di dar termine ad una vita, svolgentesi contro Dio e contro i poteri sociali?
Ad un continuo timore di pericoli e di morte? Pur ciò nondimeno per opera di M[onsignor] Parladore, che promise alla banda di Francesco La Valle che pel merito della presentazione si sarebbe scemata la condanna, un bel giorno, ecco nell'episcopio venirsi a presentare quella compagnia, che ricattando ed uccidendo erano gran cagione di perturbazione. Qualche sommetta di danaro a ciascheduno, frutti di dispensa ed altro fu fatto ad essi tenere dal Vescovo, per la quale meritò che il governo gli desse l'onoreficenza del gran Cordone d'Italia; brutta e immeritata retribuzione fu al certo l'ingente furto e lo spoglio dell'episcopio perpetrato da indigeni malfattori, mentre il Vescovo ritrovavasi in Roma al Concio Vaticano, alla cooperazione di quel nobile fatto, onde la quiete e la sicurezza ritornava tra i cittadini. (2)
Ma non credo di farla da predicare, se dico che quel sacrilego furto per la derubazione di tante cose sacre, e per lo oltraggio e l'atto irriverente verso la persona di un Vescovo, che stava in Roma per gli interessi della Chiesa; Dio abbia veduto e di già colmo il vaso dell'ira sua, e n'abbia diffuso il fatal liquore sulla città dell'Evangelista.
Nel 1855 fu importato a S.Marco il colera, quel flagello di Dio, misterioso però ed irreparabile, come lo sdegno di colui, che, rompendo il vasello dell'ira sua, lo diffonde su la terra peccatrice. Il profeta dell'Apocalisse ce ne porge una bella descrizione: cavalca un cavallo pallidissimo e il sepolcro le cammina sulle spalle. Chi dirà lo spavento, che agghiacciava il sangue nelle vene dei miei concittadini, quando la terribile pestilenza dalle negre ali piovea la morte? Ahi! che il ricordo dopo tant'anni nel pensiero rinnova la paura! Il tempo piovoso rendea quei giorni più tristi; la pioggia oltre l'ordinario cadeva a catinelli; deserte tutte le vie della popolosa città che presentava l'aspetto lugubre di vasto cimitero. Chiuse le botteghe, molte case vuote, e frutta che altra volta formavano dolce pascolo, sparse per terra. Gli animi paurosi ed esacerbati, perchè maligne insinuazioni di malvagi dvano a credere essere opera del governo quella colerica invasione; nè altro si vedeva per le strade che il prete, che portava il viatico ai moribondi; o il trasporto continuo delle vittime del morbo, preceduto solo dalla croce.
Dal 21 novembre, giorno della Presentazione di maria, il turpe mostro si pose in via alla voce del Signore, e riempì di lutto la città, di dolore le famiglie, di trepidanza tutti. Le chiese erano pure deserte, ma non così che pochi con occhi molli di lagrime mancassero mai ai piedi di Maria, il cui simulacro era esposto, spandendo supplichevolmente l'anima addolorata ed afflitta, come gli angeli solitarii, che con la preghiera placavano l'ira del Signore. E il signore nella sua misericordia, per la intercessione di Maria, avvocata nostra, e dell'Evangelista, nostro proteggitore, ebbe pietà della povera S.Marco, e nel dì 8 dicembre dello stesso anno, non che non esservi stato nessun nuovo attacco del morbo, nessuno degli attaccati nei giorni precedenti, di cui ve n'è tuttavia alcuno vivente, ebbero a soccombre
 . Qui mi si presenta nuovamente la nobile figura di Parladore, nella cui biografia messa nella seconda parte di queste memorie il lettore ha veduto quello che operò in S.Marco nella circostanza della colerica invasione. (3) S.Marco giaceva depressa e terrorizzata e alla venuta del Vescovo, che corse subito dal suo paese, riconfortandosi rialzavasi. Visitò non una ma più fiate i colerosi tutti, dando non meno aiuti di conforti che di danaro con mano sciolta.
E qui non parmi bello tacere di quei Sacerdoti che, mentre altri fuggiva, a capo fitto, sprezzando ogni pericolo, si diedero all'assistenza dei colerosi. E ciò non per vanitosa iattanza, che scolora la bellezza stessa delle opere buone, ma perchè la memoria delle opere eroiche, oltre il conforto agli spiriti assetati del bene, accendono con l'esempio gli animi a benfare. Francesco Parroco Polignano, P. Andonio da Saracena dei M[inori] R[iformati], Luigi Romita, allora economo e lo scrivente di questi ricordi, (bando alla modestia d'obbligo), sono nomi che S.Marco non deve obliare; perché di notte e di giorno impreturbabilmente, senza timore di contagio, sedettero accanto ai letti dei poveri infermi fino all'ultima agonia, confortandoli di aiuti spirituali. Egli è gran tempo, o miei confratelli, che incrociando le braccia, e posando lo stanco capo su l'origliere della morte, vi addormentaste nella pace del Signore. I vostri nomi sono di già scritti nel libro della vita [vedi elenco morti colera], ma le vostre salme riposino in pace nella polvere dei sepolcri!
Or vi torni a scena di dolore, che tante trepidanze e lagrime produsse e vuole arrestare le ali del pensiero in men lacrimevoli casi! Anzi, se piace al lettore, vorrei chiudere il presente capitolo, ricordando per scopo di onesta compiacenza la scuola, la coltura del paese nel tempo di cui ho tratteggiato la storia. Amore all'arte, tendenza ai medesimi ideali e affetto fraterno in questo tempo riuniva un drappello di amici a quotidiani conversari.
Fra i pochi una col narratore di queste memorie erano Cantisani Gaetano, Rocco Raffaele [Rocco ceppo 2] , Balsano Ferdinando, Candela Pasquale, Cassani Vincenzo [era figlio di una De Chiara]ed altri pochi, ahi! tutte care esistenze rapite innanzitempo all'amor mio! Tutti per più e più anni incanutirono nell'insegnamento e nelle discipline educative e l'insegnamento per essi era apostolato e sacerdozio; onde S.Marco li aveva in estimazione ed in reverenza di amore.
Noi sempre uniti nelle ore di vacanza, assiduamente l'uno in cerca dell'altro, ci amavamo assai, e reciproca estimazione era il fondamento del nostro amore. Una sola ambizione in noi, quella d'emulare le virtù dell'altro; un solo fremito, il dolore della patria, una speranza la redenzione dell'Italia, una sola cura la gloria. I nostri non erano se non che convenii letterarii e scientifici, una palestra, un nobile agone, una scuola, in cui si tempravano propositi di studii, di fede di affetti. L'arte, la scienza e di tutte cose belle era l'obbietto innocente del nostro favellare; e i nostri discorsi rallegravano i sogni dorati e le rosee illusioni che sorridevano alle nostre giovanili fantasie. Alieni di mescolarci in alcuna scuola e in nessun partito, seguitavamo, come meglio poteasi, per la propria salita, senza assoggetarci a nessun domma, a nessun maestro secondo il gran consiglio di pascal; indipendenza intellettuale.
Gli autori che leggevamo, obbietto di liberi giudizii, e su discordanza di essi, non fu caso, in cui si attaccasse briga per sfoggio di sapere. I libri nuovi, appartenenti ad uno, facevano il giro, perchè li leggessero tutti; nè ombra men che lieve d'invidia allignava tra noi per chi dicesse meglio o di più. Si aveva da ciascuno un nome convenzionale, e con questo tra noi si era usi appellarci, occorrendo tener discorsi con altri di qualche socio, non che demolire il merito, gli s'ingrandiva secondo il proprio potere.
Soleva darsi lettura dei nostri componimenti; ad unanimità di voti nominavasi il lettore, gli avvocati e i giudici; l'autore non poteva difendersi, se non dopo il giudizio di tutti; giudicare con libertà e franchezza era primo canone. Non ci fu caso che i giudizii critici, le discussioni e gli apprezzamenti delle cose lette tornassero, neppure per ombra ad offesa degli autori. Una volta si lesse una mia novella; lettore Balsano, giudici Rocco e Cantisani, avvocato Cassani, avversario contradicente Candela; ci fu un visibilio di pro e contro; e quando la discussione vivace si chiuse, non ci fu ombra alcuna di risentimento o rancore.
Fra i passatempi onesti c'era questo; s'improvvisano sonetti, ottave od altro e solea farsi così uno dava il concetto, e poi l'uno appresso dell'altro un verso per ciascheduno, e ne riuscivano componimenti talora mediocri, buoni talora, ora con caricature ora senza. Senza derogare alla individuale libertà, se mancava qualcuno, si sentiva un vuoto e quindi si doveva dar ragione del non essersi fatto vedere.
Oh! come a me superstite di quei dolci amici, solitarie e lugubri sembrano quelle vie, che percorremmo sempre insieme! Oh, gioia di passeggi invidiati! Oh ricambio di sinceri affetti di cuori, non vantatori di probità, ma probi! Oh simposii fraterni, allietati da pacate e vereconde gioie! Quell'ulivo a pie' del quale solevamo sedere, quel muricciolo sdrucito, quel pratello molle tappeto di verdura su cui fra gli austeri discorsi e le manifestazioni serie del vero, si era vaghi di stender le mani a cogliere i selvaggi fiori delle pratelline, oh quante memorie serbano di ciascuno di noi! I seguenti versi, scritti dopo la morte di F.Balsano, riepilogano in parte quello, che si agitava nell'animo nostro in quel tempo:

Noi ardevamo del desio di un nome,
e dello allor che solo si comparte
a chi d'Italia orni di un fior le chiome.
Nostra cura amorosa eran de l'arte
I sovrani ideali, e affaticava
L'alma lo studio de le dotte carte
Il magnanimo ardir si lamentava
Spento nei petti, e ognun di noi fremea
Sui gravi affanni de la patria schiava.
Libertà si cercava, e l'altra idea
D'unirsi in un amor scettro e tiara
Senza giogo stranier ci sorridea
(Per l'inaugurazione del Busto Rog. 10 ottobre 89)

La nostra brigata, le cui assidue adunanze parvero sospette, e come il lettore conobbe dal luogo, dove accennai alla processura dei quaranta, invocarono fulmini; avea il santo orgoglio di ricevere visite amorevoli di amici dei paesi circonvicini che nutrivano intenti comuni coi nostri, ed il nostro circolo si allargava; ad essi non era ignoto che in S.Marco era un gruppo di uomini, affratellati in un pensiero e dimostrantisi pari a pleiade di stelle chiuse nella lor luce, che percorrono l'orbita loro sotto procelloso cielo. Fu in quel tempo appunto che venne fra noi l'illustre critico italiano Francesco De Sanctis, il quale dopo i rovesci del 1848 trovò ricovero ospitale in qualità di precettore in casa Guzzolini in Cervicati;. Or esso seguito da Marchianò Alfonso qui tra noi, or noi in Cervicati; e nei cari alterni simposii tra i brindisi scambievoli e gli augurii ai tempi sperati presedeva la più gioconda e modesta gioia, che aggiungeva un filo alla trama di nostra angustiata esistenza. Nella stessa poesia dianzi citata, così parlò del De Sanctis:

Oh simposii fraterni, ove colui
che del tiranno il rio furor fuggiva
Scampo cercava fra gli amici sui.
E tu (Fran. De Santis) pur vi venivi, anima schiva,
Dell'italo servaggio, la selvosa
Abbandonando tua Morra nativa.
E qui su l'ospital Borgo, che posa
In cima a poggio aereo, i primi germi
Gittavi di una scuola ormai famosa.
Che tu dell'arte agl'intelletti infermi
Gli alti veri scopristi, è insuperato
Fosti ne' voli tuoi robusti e fermi.
E dietro l'orme tuo stuolo onorato
Di giovani si spinse, e sotto il segno
Glorioso pugnò da te spiegato
Ibidem

In quel tempo il De Santis non avea pubblicato se non che la bella prefazione che precede un'edizione delle Opere drammatiche di Schiller, e non ancora era salito in fama; tenero partigiano della filosofia tedesca, come che lungo il cammino delle assidue passeggiate amava che io gli facessi sostegno del mio braccio, mi teneva lunghi discorsi per convertirmi alla sua maniera di credere e pensare. E poiché, se bene o male non so, gli andava sciorinando in opposizione al suo dire le dottrine di Gioberti, che allora avea tra mano, egli mi salutava col nome di Abate giobertiano. Quando già salito in fama fu nominato Ministro della Pubblica Istruzione, io era in Napoli, e mi parve che, se fossi andato a lui, la mia visita ssarebbe sembrata cointeressata, e smisi. Ubbie e fisime di giovanili sdegni intempestivi. Eravamo amici, e dovea vederlo, ecco, ora che ci penso, la verità.
Torneranno sempre care al mio cuore quelle giornate, quando seduti sotto l'ombra di castagni in fiore, ignorando allora che colui, col quale avvicendavamo quei familiari conversari, sarebbe divenuto uomo grande e di fama italiana. Intanto sì per l'assiduità delle nostre riunioni, e sì perché la polizia teneva gli occhi vigili su l'antico Segretario del Parlamento napoletano, qual era stato il De Sanctis, fummo nuovamente calunniati, onde il De Sanctis fu obbligato cangiar dimora, e poi battere l'oscura strada dell'esiglio, ch'ebbe termine nel 1860. Un'aura di pace spirava in seno alle nostre adunanze e si viveva come tali, cui né brama né timor governa seguivamo nostro proposito, in quella che come il rombo, che precede la tempesta, rumoreggiava non lontano il nembo dell'ultima lotta del 1860, e quasi pieni di questa vicina speme, non avvertivamo lo sguardo avverso di fortuna e gli oltraggi immeritati degli uomini.
 
Capitolo VIII

 
(1) Presso il Vescovo non mancarono le ospitali accoglienze.

(2) Il ladro Schella [quasi certamente Chimenti Francescantonio di Michele ceppo 4]   svelò che l'argenteria fu presa da un prete. E questa è la misura capace a valutare i tempi! ...

(3) In quel tempo il Vescovo ed il Notaio restar dovevano in paese. Fu allora che il notaio Cristofaro [Antonio (1795) vedasi ceppo 1] fece voto e donoò a S.Maria il piccolo organo che vi si trova.


Gaetano Cantisani, sacerdote, nato a Frascineto da Carlo e Vittoria Ferrari, morto a San Marco Argentano il 25 maggio 1881 all'età di 70 anni

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A cura di Paolo Chiaselotti